Questi sono due articoli della Gazzetta dello sport di oggi. Uno parla di un campione dell’atletica impegnato (con successo) al Mondiale di Londra, l’altro di un campione del ciclismo (anzi del ciclismo più povero: il ciclocross) di un mezzo secolo fa.
Li metto insieme, i due articoli, perché, se li si legge bene, fanno capire l’abisso che separa lo sport (e anche la Gazzetta dello sport) di oggi da quello (e quella) di decenni ormai lontani.
Non si tratta soltanto di una questione di soldi. Oggi un campione mondiale può “sistemarsi” per tutta la vita: bravo lui. Longo, che è stato grandissimo, per tutta la vita ha continuato a lavorare.
Il problema è di mentalità. E non degli atleti, ma dei mezzi di comunicazione, prigionieri della TV. Anche perché ormai tutte le grandi competizioni possono essere viste in TV: così non conta quello che vede e percepisce l’inviato (per i quotidiani che ancora lo mandano…) lì, sul luogo in cui la gara si svolge. Conta di più quello che tutti i suoi colleghi e soprattutto i suoi capi hanno visto in TV,magari condizionati da una telecronaca faziosa e ricca di preconcetti.
Nel caso specifico della gara dei 400 metri di Londra, conosco Fausto Narducci e so che è un vero appassionato di atletica. Tuttavia in queste righe dà proprio la dimostrazione palese della “deviazione di rotta” impressa ormai da tanti anni allo sport, costretto a trasformarsi in spettacolo , a beneficio di TV e sponsor.
Non basta quello che il campione ha fatto, vincendo alla grande. Certo, sarebbe stato meglio che avesse fatto pure il record mondiale (però poi ci si stupisce se qualcuno cade nel doping…), ma, visto che le condizioni atmosferiche quel record non lo consentivano, avrebbe almeno dovuto dannarsi fino all’ultimo metro e, in ogni caso, tagliato il traguardo, inventarsi qualcosa per farsi notare, per lasciare un ricordo indelebile.
La prestazione non basta: serve il contorno. Un bel balletto? Una capriola? Magari uno svenimento. Oppure un grande discorso da ripetere a ogni TV, pronta – una in fila all’altra, a decine – a togliergli il fiato pur di sentire la sua voce immediatamente dopo il traguardo, come se non contasse quel che dice ma il quando lo dice.
Appunto: l’avvenimento sportivo in sé non basta. E per questo l’atletica mondiale sta per mettersi a lutto, perché se ne va Bolt, come a lutto si mise lo sci con l’addio di Tomba.
Ma Bolt e Tomba non sono imitabili. Longo ai suoi tempi non voleva né poteva essere Zandegù, che sul palco si metteva a cantare ed era una (veloce) macchietta, simpatica per la sua spontaneità. Magari Longo cantava anche meglio, ma se si fosse esibito per fare spettacolo, avrebbe fatto la ridicola figura di tutti i politici contemporanei che, credendo di rendersi più simpatici al pubblico di TV spazzatura, si sono soltanto tagliati sotto i piedi l’erba della credibilità.
Ed è questo che purtroppo si continua a chiedere ai nuovi campioni in tutte le discipline: di farsi personaggi al di là di quel che sono le loro capacità e soprattutto di quel che è la loro spontaneità. Così per un Valentino Rossi avremo decine di Balotelli e per un Cristiano Ronaldo migliaia di Cenerentoli alla caccia di una notorietà trasversale che non meritano e forse non possono reggere.
E il grande pubblico, al quale di sport poco e niente si spiega, ricorderà non la velocista autrice dell’incredibile rimonta, ma il fenomeno da baraccone di antiche fiere che avremmo sperato di non vedere più, messo a gareggiare insieme a ragazze che sono grandi la metà. E quel pubblico farà festa e comprerà i manifesti dell’atletica il giorno in cui, per entrare definitivamente nel mondo dorato dello spettacolo, una (forse) campionessa vittoriosa si farà squalificare per essersi tolta ed aver esibito a favore di TV non le scarpe, come l’ormai dimenticato pioniere Lasse Viren, ma il top….
Sandro Filippini