Gli ho dato appuntamento al Curioni, il campo dell’Asr, all’Idroscalo, a Milano. Alle 18, quando il caldo ha mollato un po’. Il tempo di salutarci, guardarci negli occhi, berci una birra, insieme. Poi, liberi tutti.
Io conosco lui, lui non conosce me. Tutti conoscono lui, anche quelli che non distinguono un pallone ovale da uno rotondo. Lui è quello grande grosso e veloce, quello dei 196 centimetri di altezza, 119 chili di peso e 10”9 sui 100 metri, quello nero per la pelle, la prima pelle, e nero anche per la maglia, la seconda pelle, quello che nel 1995 ha diviso la storia del rugby in prima di lui e dopo di lui come Gesù Cristo – con le debite distanze e misure – fece con la storia del mondo. E’ vero che proprio nel 1995 il rugby si divise fra il prima, che era il dilettantismo, giocare per passione, e il dopo, il professionismo, giocare per professione, mestiere, lavoro, soldi, contratti. Ma lui ci mise del suo, la sua stazza da armadio, la sua velocità da fiera, anche il suo sorriso da bambino, la sua crapa pelata con un ciuffo da marketing, gli si perdonava proprio tutto.
Sono qui che aspetto Jonah Lomu. Era stata Isabella – Isabella Ferretti, della 66thand2nd, casa editrice romana nonostante il nome dell’incrocio newyorkese – a chiedermi perché non scrivessi un libro su di lui. Io presi tempo, intimidito dalla prossimità della morte, dalla responsabilità del progetto, dalla disabitudine a occuparmi di un campione, di un vincente, di un personaggio così. Ehi, perché non scrivi la storia di Gesù Cristo?, era come se Isabella mi avesse domandato questo, un nuovo Vangelo, e non basta chiamarsi Marco per diventare un bravo evangelista. Poi, con il solito coraggio, le risposi “vediamo”, o forse “proviamo”, purché “se poi non va, buttiamo via tutto”. Individuato l’inizio – la prima delle quattro mete nella semifinale della Coppa del mondo 1995 contro l’Inghilterra -, radiografata scansionata analizzata l’azione – con Sergio Carnovali: pc e cronometro, carta e penna -, sillabata metro dopo metro (35), passo dopo passo (25), secondo dopo secondo (sette) e avversario dopo avversario (tre), il resto è stato un omaggio e un onore, un ricordo e un viaggio, un “up-and-under” e una mischia aperta, tutta roba ovale.
Sono venuto in anticipo, un po’ per rispetto, un po’ per mancanza di alternativa, un po’ anche per presenza di ansia, direttamente proporzionale all’aumento dell’età. Entro nella Bislunga Bistrot, mi siedo nell’angolo di Cabrio, le panchette del Gamba de Legn traslocate fin qui dalla cantina del Lele, come per una villeggiatura estiva, un soggiorno salutistico, una vacanza premio. Fuori, il campo sintetico, di un verde che così neanche a Prato dello Stelvio. C’è un viavai di ragazzini – anche di mamme, se è per questo – quasi commovente. Lomu era già venuto all’Asr, ma era la sede di via Valvassor Peroni, al Giuriati Nuovo, c’è una foto che lo ritrae assediato sommerso travolto da un gruppo di ragazzini che forse non sapevano, ma che certo intuivano, quel grande grosso e veloce, quel nero di prima e seconda pelle, quel sorriso in cui, in fondo, si ritrovavano facilmente. Aveva già smesso di giocare, ma continuava a girare, da ambasciatore, da testimone, da campione, nel tentativo di restituire almeno un po’ di quello che il rugby gli aveva dato, e madrenatura regalato, anche se in una vita iniziata in salita e finita in discesa, a precipizio e, per quanto prevista, a sorpresa.
Il libro – “L’Uragano nero” – va, va bene, va benone, senonché, essendone l’autore, sarei il meno indicato a dirlo. L’ho presentato a Rho e a Roma, a Ravenna e a Cogoleto, ad Avezzano e a Civitavecchia, a Recco e a Rubano, a Pavia e a Siena, a Città di Castello e a Rapolano Terme, a Imola e a Lugano, a Genova e a Frassinelle, a Prato e a Biella, e anche qui, all’Asr Milano, con Sergio Carnovali, che lo aveva tenuto a battesimo al concepimento e non, come si fa più spesso, alla nascita. Mi sentivo in dovere di spiegare e raccontare, Lomu e i suoi compagni, Lomu e i suoi discepoli, Lomu e i suoi antenati, Lomu e un po’ anche me, il popolo del rugby, quel senso di appartenenza, quella geografia dei sentimenti, quella grammatica dei gesti, che ci lega, tutti, come in una mischia così numerosa da sbaragliare ogni record nel “Guinness dei primati”.
Chissà se gli piacerà, mi chiedo, mentre Lomu entra nella Bislunga Bistrot, oscurando l’orizzonte. Mi alzo, gli vado incontro, gli tendo la mano. Ciao, Jonah.
LA META DI LOMU
Venticinque passi.
Il primo passo è nella metà campo dell’Inghilterra, a circa trentacinque metri dalla linea di meta, sulla sinistra. Sono passati centoventitré secondi dal calcio d’inizio e l’equilibrio della partita si è già rotto. L’equilibrio è un incantesimo: in montagna, in bicicletta, anche nel rugby. E basta poco per spezzarlo.
E’ il 18 giugno 1995. E’ la terza edizione della Coppa del mondo. Ed è Sud Africa. Quella tra Nuova Zelanda e Inghilterra, cioè tra All Blacks e All Whites, al Newlands Stadium di Città del Capo, esaurito, cinquantunomila spettatori, è la seconda semifinale. L’altra, tra Sud Africa e Francia, con gli Springboks che hanno battuto i Bleus 19-15, si è giocata il giorno prima, nel King’s Park di Durban, sotto una tempesta di pioggia. Invece a Città del Capo il sole, anche il sole, ruggisce.
Il kick-off, il calcio che dà inizio, come un segno della croce, alla liturgia di tutte le partite di rugby, spetta agli All Blacks. Pallone nell’alto dei cieli e guerra in terra agli uomini di buona volontà: obiettivo, la conquista del primo possesso dell’ovale. Tanto per far capire come gira la giornata, la partita, la squadra. A sorpresa, gli All Blacks scelgono di non calciare dalla parte, quella alla loro destra, dove si sono piazzati gli avanti neozelandesi e inglesi, ma dall’altra, quella alla loro sinistra, dove si sono schierati i trequarti. E’ la parte che il rugby definisce aperta: aperta al gioco, ai passaggi, alla corsa, alla fantasia, dunque all’esplorazione e all’avventura. La parte aperta è quella dominata dallo spazio, la parte chiusa è quella abitata dal tempo.
La parte aperta è anche la parte dove il neozelandese Jonah Lomu – suoi, i venticinque passi – si aggira, come una pantera nera, in agguato, e dove gli inglesi Will Carling e Tony Underwood, per eccesso di concentrazione, o di tensione, o di emozione, nel tentativo di conquistare il pallone calciato dal mediano di apertura neozelandese Andy Mehrtens, si scontrano come due bambini, cadono come due birilli, appasiono come due pecorelle bianche. Una pantera nera e due pecorelle bianche. Castigando l’incertezza degli inglesi, il pallone viene subito catturato dagli All Blacks. Un momento immediatamente favorevole, propizio, fortunato per i neozelandesi, perché il pacchetto degli avanti inglesi non ha ancora avuto il tempo di spostarsi, unito e solidale come una falange, per difendere il proprio territorio. E’ una battaglia campale, in una guerra di conquista.
Prima una mischia ordinata sulla sinistra, poi una touche, più avanti, sulla destra, tutte e due per gli All Blacks, che cercano gli spazi e giocano sempre alla mano, al largo. L’azione prosegue: c’è un primo raggruppamento sulla destra, un secondo raggruppamento più al centro, il pallone schizza fuori rapido, e mentre il primo centro neozelandese Walter Little sembra proteggere questo avamposto offensivo, Graeme Bachop, il mediano di mischia, salta l’estremo Glen Osborne, inseritosi nella linea dei trequarti, e passa il pallone direttamente a Lomu. Non è un passaggio teso e preciso, ma parabolico e lungo. Tanto lungo che il pallone rimbalza addirittura oltre Lomu. E quando Lomu se ne impadronisce, a due mani, ha il piede destro ancorato a terra, ma carico e fumante. Forse, sul campo, a cercare bene, esiste ancora la sua impronta. E questo è il suo primo passo.
Al secondo passo, destro-sinistro, Lomu ha già consolidato il possesso del pallone, cioè lo ha blindato fra braccio, petto e spalla sinistri, e sta fissando l’avversario, il suo diretto avversario, Tony Underwood, lanciato al placcaggio.
Il terzo passo, sinistro-destro, è un capolavoro d’arte, fra danza e pittura, così leggiadro e muscolare, teorico e scultoreo, un passo incrociato, si direbbe, il piede destro all’interno per fronteggiare, il piede sinistro all’esterno per sfuggire, il pallone protetto a sinistra, il braccio destro in estensione e la mano destra – un frontino – per respingere la difesa dell’inglese. Che è sempre Tony Underwood, non il fratello maggiore Rory, anche se dopo quel frontino Tony potrebbe avere dimenticato il proprio nome, età e identità.
Tre passi, primo placcaggio evitato, un secondo di tempo.
A trenta metri dalla linea di meta inglese, Lomu sfrutta l’energia del placcatore che non lo ha placcato e converte la sua forza distruttiva in propulsiva – come succede nel judo – per allontanarsi dall’impatto, dal pericolo. Ma uno sbilanciamento è inevitabile. Tant’è che il quarto passo, destro-sinistro, con il sinistro a fare da diga, da argine, da puntello, serve per ritrovare il bilanciamento. Con il quinto passo, sinistro-destro, il bilanciamento è ritrovato. E con il sesto passo, destro-sinistro, il bilanciamento è perfetto. E la sorte è ironica: Lomu che vola e Underwood, stiamo sempre parlando di Tony, ufficiale e poi pilota della Royal Air Force, che striscia a terra.
Settimo, ottavo, nono passo. All’altezza della linea dei ventidue, ventidue metri dalla linea di meta inglese, adesso Lomu deve affrontare Carling, secondo centro e capitano dell’Inghilterra, spettegolato per una mezza storia con Lady Diana. Ma su Carling, Lomu ha almeno mezzo metro di vantaggio, anzi, mezzo metro di un doppio vantaggio nello spazio come distanza e nello spazio come direzione, perché Carling è fuori dai ventidue e Lomu dentro. Carling punta Lomu: con il corpo. E Lomu punta Carling: con lo sguardo. Carling sa di essere in ritardo su Lomu per placcarlo, con il braccio a tenaglia, così si tuffa almeno per schiaffeggiarlo, con la mano a uncino. Questa acrobazia disperata si chiama “francesina”: una manata sulla caviglia o sul piede dell’avversario per scoordinarne la corsa e scardinarne la stabilità. Con la mano destra, Carling colpisce, forse, il piede sinistro di Lomu, ma il piede è in appoggio, e risulta immune, inattaccabile, invulnerabile. Sullo slancio Carling sfiora il polpaccio destro di Lomu, e qui gli spezza l’azione, gli fa quasi perdere il passo e il peso. Quasi.
Dodici passi, secondo placcaggio evitato, tre secondi di tempo.
Mentre Carling finisce fuori dal campo, Lomu utilizza quattro passi – tredicesimo, quattordicesimo, quindicesimo e sedicesimo – per recuperare l’equilibrio perduto. Si è sbilanciato in avanti. Per riuscire a ritrovare coordinazione e linea, Lomu china la testa in avanti e in basso, e allarga le braccia, come se le sue braccia fossero le ali di un albatros. Se si osserva la sequenza al rallentatore, c’è un istante, un fotogramma, in cui Lomu forma una T e compone una croce: mano braccio petto e pallone larghi a sinistra, braccio teso a destra, una gamba in appoggio, l’altra, quasi invisibile, a rimorchio. Potrebbe essere anche una figura da ginnastica artistica, a corpo libero, o sulla trave. O anche una figura da pattinaggio, artistico sempre, su ghiaccio. Elegante nella sua drammaticità.
Intanto Lomu continua a ignorare il suo compagno Osborne, che sulla destra lo sostiene: potrebbe passargli il pallone, due contro uno, e sarebbe meta. Quasi facile. Ma sarà che ha una voglia pazzesca, Lomu. Sarà che se la sente, l’azione, la meta, la partita, Lomu. Sarà anche che ha un conto aperto o ancora da aprire con il destino, Lomu.
Così, sulla strada di Lomu verso la meta, resta soltanto l’ultimo difensore, l’estremo difensore, l’estremo Mike Catt. A sette, forse otto metri dalla linea di meta. Se Catt avanzasse, potrebbe cogliere Lomu ancora sbilanciato. Ma Catt aspetta, probabilmente indeciso se placcare Lomu di fronte o di fianco, più probabilmente impietrito davanti a quell’uragano nero. L’indecisione è fatale. Lomu ne approfitta per chiudere le ali da albatros, portare il pallone al petto, proteggerlo e stringerlo, e trasformarlo in una specie di cuneo, alzare lo sguardo verso l’inglese, infine ritrovare l’equilibrio proprio nell’attimo dell’impatto. Perché Lomu, per superare Catt, sceglie la via più breve: quella diritta. E allora si avventa sull’inglese, lo sfonda, lo attraversa, lo ara, lo asfalta, lo calpesta, lo ribalta. E come se non bastasse, con la mano destra lo allontana, o forse lo benedice, gli impartisce l‘estrema unzione.
Venti passi, terzo placcaggio evitato, cinque secondi di tempo.
Rimangono cinque passi. L’ultimo appoggio è sul piede sinistro, a un paio di metri dalla linea di meta. Poi Lomu si tuffa, decolla, atterra, scivola. Il pallone ancora incorporato tra braccio e petto a sinistra, il corpo strisciante sull’erba, le gambe e i piedi volanti e festanti nell’aria.
Venticinque passi, tre placcaggi evitati, sette secondi di tempo.
Meta.
La meta di Lomu.
Poi Lomu volge la testa, e lo sguardo, a destra, con braccio e mano sinistri getta il pallone a terra, come per dire “è fatta” oppure “e una”, sottintendendo meta, torna verso la propria metà campo, e saluta Sean Fitzpatrick, il tallonatore e capitano degli All Blacks, mano contro mano, “slap five”. Non un sorriso. Non una smorfia. Non una concessione. Solo pura concentrazione.
E’ il terzo minuto, ne mancano settantasette, ma la prtita è già segnata e, vista adesso, già finita. Gli All Blacks vinceranno 45-29, e Lomu segnerà altre tre mete.
Un giorno Lomu dirà che quella lì non è stata la sua meta più bella, e neanche la più bella di quella partita. Eppure resterà la meta più ammirata, la più ricordata, la più celebrata. Quella che ha rivoluzionato Ovalia. Quella che dopo non è stato più nulla come prima. Quella dei venticinque passi: il primo quando Lomu s’impossessa del pallone, il venticinquesimo quando si slancia per tuffarsi e schiacciare il pallone in meta, e – dentro quei venticinque passi – c’è tutto. Tutto Lomu.
Quella meta è un giacimento, un’eredità, un traguardo, ma anche una nuova partenza. La partenza di questo libro: la partenza della storia di Jonah Lomu e di altre storie parallele, precedenti, convergenti, legate, imparentate. Ovali.