Mats Wilander è il volto della tv che detiene i diritti degli Us Open: lo vedi continuamente dibattere su tutti i temi, commentare, criticare, e magari citare connazionali, ex colleghi tennisti, oggi allenatori di grido, da Magnus Norman (Wawrinka) a Jonas Bjorkman (Cilic e prima Murray), che hanno seguito il filone di Stefan Edberg (Federer), Thomas Johansson (Coric), Peter Lundgren (Rios, Federer, Safin, Baghdatis, Dimitrov, Wawrinka ed Huntuchova), Thomas Hogstedt (Sharapova, Wozniacki, Halep) e Mikael Tillstrom (Monfils). Wilander è stato tanto precoce, specialista della terra rossa e poi giocatore universale, è salito al numero 1 del mondo, ha sfiorato il Grande Slam nel 1988 (mancò solo Wimbledon fra i trionfi stagionali nei quattro Majors), ha vinto tre coppe Davis, è stato il vero trascinato dell’epopea del tennis svedese anni 90, che fruttò anche 7 trionfi di coppa Davis (1975, 1984, 1985, 1987, 1994, 1997, 1998).
Ma anche lui, così forte e sicuro, quando deve spiegare dove sono finiti i tennisti di casa sua, perché non ce ne sia nemmeno uno a New York fra i 128 partecipanti al singolare, e perché i primi in classifica siano i fratelli Elias (21 anni) e Mikael Ymer (18), appena numero 201 e 313 del mondo, figli di immigrati etiopi, allarga le braccia sconsolato, e filosofeggia. “E’ un problema soprattutto sociale. Calcio e hockey ghiaccio saccheggiano i vivai dei migliori giovani, e per quanto riguarda gli sport individuali, il golf ha soppiantato il tennis in popolarità e facilità di risultati e di guadagni. Il tennis costa troppo per i giovani aspiranti e le famiglie non riescono a sostenere spese così ingenti, e a fondo perso. Il centro tecnico di Baastad era stato la soluzione per molte promesse: noi ci allenavamo insieme stimolandoci l’un l’altro”.
A fronte di circa 100mila tesserati, i praticanti sono appena un decimo. La soluzione sarebbe proprio sociale: aumentare i campi coperti, agevolare l’accesso al tennis, azzerare i costi, lanciare una campagna di propaganda di recupero delle racchette. Le scuole tennis private non bastano, anche se sono accreditate e gestite da ex pro di nome, come Magnus Norman che nel 2000 vinse Roma battendo in finale Kuerten, ma subito dopo ci perse nella finale del Roland Garros, approdando comunque al numero 2 del mondo, prima di arrendersi prematuramente a problemi alle anche. Due anni dopo, agli Australian Open 2002, Thomas Johansson firmava l’ultimo dei 25 titoli dello Slam svedesi, dieci anni dopo l’ultimo, ma con ancora otto giocatori fra i primi cento nel 2000 e cinque nel 2004, dopo il favoloso acme fra il 1988 e il 1990: addirittura tre svedesi sei del mondo e dodici nei cento, dietro Edberg numero uno.
Dopo Johansson, l’ultimo tennis svedese protagonista ad alto livello è stato lo sfortunato Robin Soderling, rude picchiatore con l’hobby di guastafeste che ha interrotto almeno per un anno l’imbattibilità di dieci Roland Garros di Rafa Nadal, schiantandolo negli ottavi del 2009 sulla terra rossa di Parigi. A novembre 2010, salì fino al numero 4 del mondo, dopo la seconda, sfortunata, finale consecutiva al Roland Garros, per poi chiudere la carriera per una mononucleosi ad appena 26 anni. Proprio come il capostipite della leggendaria genia del tennis svedese, Bjorn Borg, bruciato nel 1981 dal suo stesso tennis estremamente logorante, di fisico e di testa, che aveva vario negli anni 70 a colpi di top spin e regolarità. Dopo aver dato lo spunto ad altri due numeri 1 del mondo, Mats Wilander e Stefan Edberg, lanciando il seme che avrebbe prodotto tanti altri ottimi giocatori, da Pernofors a Nystrom, da Jarryd a Svensson, da Kent Karlsen a Enqvist, da Norman a Thomas Johansson.
Magari il futuro è legato ai figli di immigrati, come appunto gli Ymer, poveri, e affamati, o almeno non benestanti, proprio come i pionieri della generazione di fenomeni.