Il 18 dicembre del 1976 è una data storica per il nostro tennis: a Santiago del Cile l’Italia conquista, con il punto del doppio, la sua prima Coppa Davis. A distanza di 41 anni da quella prestigiosa vittoria, questo trofeo nato nel 1900 e che prende il nome dal suo ideatore, Dwight Davis, è rimasta l’unica nella storia dello sport italiano. Forse proprio per questo, a distanza di anni questa Coppa Davis del 1976 (anno magico per il tennis italiano, con le vittorie di Panatta a Roma e Parigi) continuiamo a celebrarla e ad ogni anniversario importante, come lo sono stati i 40 anni dello scorso dicembre, la celebriamo con sempre maggiore enfasi. “Se mi avessero detto che la nostra vittoria sarebbe rimasta l’unica nella storia della Coppa Davis tanto a lungo non ci avrei creduto” dice oggi Paolo Bertolucci, uno dei protagonisti di quel gruppo. Tra le occasioni di celebrazione c’è anche il libro edito da Ultra sport e scritto a quattro mani dal sottoscritto (avevo già lavorato proprio con Paolo sulla sua autobiografia, “Pasta Kid”, sempre per edizioni Ultra) e Alessandro Nizegorodcew, una delle voci di SuperTennis TV che nel 1976 non era ancora nato (mentre io avevo già 13 anni e Panatta e c. li ho visti giocare davvero).
Nel nostro libro – che giovedì 7 abbiamo l’onore di presentare al TC Milano – abbiamo voluto dar voce ai protagonisti dell’epoca: a cominciare dal capitano Nicola Pietrangeli e dai 4 eroi di Santiago (“Panatta, Barazzutti, Bertolucci e Zugarelli” da snocciolare in rigoroso ordine, come le formazioni di calcio di quegli anni: Zoff, Gentile, Cabrini….) , per proseguire con i cronisti (da Clerici a Scanagatta, da Baccini a Tommasi, da Roidi a Tauceri), sempre a caccia di storie. Come quella di Gigi Oliviero, giovane filmaker che incrociò il tennis per caso e si autofinanziò il viaggio a Santiago con un’ora e mezza di pellicola e la pesante Arriflex per cogliere l’occasione della vita. La Rai infatti, a Santiago ci andò solo con la radio, perché da noi il Paese si spaccò in due: andare o non andare nel Cile insanguinato dalla dittatura di Pinochet?
E a proposito di Rai qui citiamo uno dei protagonisti, quel Mario Giobbe che seguì per Radio 2 tutte le finali di Coppa Davis dei nostri eroi: ricordiamolo , furono ben 4 in 5 anni, e sempre giocate fuori casa. Non ci fu nulla da fare nel 1977 in Australia, nel 1979 contro la corazzata USA a S. Francisco, nel 1980 contro la Cecoslovacchia di Lendl, Smid e..i giudici di linea. Mario Giobbe pubblicò anche un libro-disco di vinile, “Le mani sulla Davis”. Un cimelio storico, che abbiamo utilizzato per raccogliere le parole di Mario Belardinelli, il vero artefice di quella nidiata di campioni, cresciuti nel college all’italiana di Formia. Oggi su poche cose i nostri 4 ex davisman sarebbero tutti d’accordo: tranne che su una, l’affetto incondizionato e la riconoscenza nei confronti del “signor Mario”.
Era un tennis d’altri tempi, che cominciava ad imboccare la strada del professionismo, dove le racchette di legno facevano tenerezza a confronto con gli attrezzi di oggi, ma forse proprio per questo ci è piaciuto così tanto raccontarlo attraverso ricordi, foto ingiallite dal tempo e testimonianze autentiche. Come quella di Vincenzo Martucci, che ne firma la prefazione: “Io c’ero in quell’indimenticabile 1976, avevo 19 anni, vivevo di fronte al Foro Italico ed ero un appassionato tifoso. C’ero, a maggio, a Roma, sulla terra di casa, per il successo agli Internazionali d’Italia di AAAdriàààno, e c’ero quando vincemmo davvero la coppa Davis, nella semifinale di settembre, contro l’Australia di Newcombe, Roche ed Alexander, non a dicembre nella finale che non potevamo perdere, in Cile. E, a leggere “1976, Storia di un Trionfo”, degli appassionati autori, Lucio Biancatelli ed Alessandro Nizegorodcew, mi è spuntata anche qualche lacrimuccia, da ex tifoso e da giornalista sportivo, perché quella Coppa andò ben oltre l’impresa, fu complessa, proprio come trasmette il libro. E rimane unica. Non solo storicamente. A partire dalla genesi del capitanato di Pietrangeli, per continuare con la delicata alchimia che legava i giocatori, Panatta, Barazzutti, Bertolucci e Zugarelli, coetanei, ma figli di storie umane e tecniche molto diverse, prima che diventassero “figli” di quel fantastico maestro di vita e di sport qual era Mario Belardinelli”.