Adesso il Toro non scalpita più. Ci ha lasciati per sempre. Ha smesso di lottare.
Era un tipo bizzaro, gli erano sempre piaciuti il caos, la frenetica voglia di battersi a viso aperto contro tutto e tutti.
“Sarà la famiglia da cui vengo. Tutto quello che ricordo, da quando ero ragazzino in poi, è che facevo a botte e strillavo e lavoravo e rubavo e più di tutto facevo a botte. E il mio vecchio che mi menava… Doveva sempre prendere a botte qualcuno, mia madre o noi ragazzi. Me non più, di certo. Perché adesso sa che se prova a mettermi un dito addosso lo butto giù dalla finestra”, diceva proprio così nell’autobiografia Raging Bull, scritta assieme ai giornalisti Joseph Carter e Peter Savage. Raccontava anche il momento in cui aveva capito il suo futuro era nella boxe.
«Ero entrato in lite con un ragazzo. L’unica cosa che potevo fare era combattere con i miei pugni. Non sapevo niente di pugilato, tutto quello che capivo era che dovevo colpire questo ragazzo il più forte e il più velocemente possibile. Rimasi forse sorpreso più di lui quando capii che stavo vincendo, che lui era quello che le prendeva. Come ho detto non sapevo niente di pugilato, e non facevo niente di straordinario, stavo solo battendomi più forte che potevo, forse perché ero terrorizzato. Non mi preoccupavo di quanti pugni tirava lui, non mi immaginavo neanche che alla peggio poteva anche ammazzarmi. Ci ho pensato solo dopo. È in questo modo che ho fatto la boxe. La prima cosa che devi fare se vuoi essere un pugile è combattere».
Giacobbe “Jake” LaMotta era nato il 10 luglio 1921 nel Bronx, New York.
Se ne è andato per sempre ieri, 19 settembre del 2017.
Sono scritte nella storia della boxe le sue sfide contro Sugar Ray Robinson, sei incontri. Una sola, memorabile vittoria per Jake.
«Io l’affrontavo cercando vendetta. Lui mi affrontava tirandomi pugni. Robinson ha aperto ogni cosa io avessi chiusa e chiuso ogni cosa avessi aperta. Ma c’è una cosa che potrai sempre dire parlando di me come pugile. Ho salvato la mia testa. Ho perso i miei denti, ma ho salvato la mia testa».
E ancora. «C’è troppa violenza nel mondo. Molta di questa è stata perpretata su di me da Sugar Ray». Chiunque abbia visto quel match, non l’ha più dimenticato. 14 febbraio del ’51, sfida incerta sino a metà incontro.
Poi Sugar Ray dilaga e negli ultimi round diventa un combattimento a senso unico. LaMotta è scosso, le gambe non gli reggono più, sanguina, incassa colpi terribili. Robinson vince per kot alla tredicesima ripresa in quello che i cronisti sui giornali definiranno “Il massacro di San Valentino”.A chiudere.
«Ho affrontato tante di quelle volte Sugar, che è un miracolo che non abbia il diabete».
È stato un buldozer del ring LaMotta, un fuoristrada che travolgeva tutto sul suo cammino. Si feriva, soffriva, piegava le gambe ma veniva avanti. Coraggio, resistenza, pugni pesanti e un grande cuore. Questo era il Toro del Bronx, uno che aveva ben chiaro come interpretare il ruolo del pugile.
“Non puoi entrare sul ring ed essere un ragazzo simpatico. Io stavo un mese, due mesi, senza fare sesso. Questo faceva di me un animale pericoloso. Non puoi combattere e provare compassione o qualsiasi cosa gli assomigli”.
Era un uomo carico di passioni. A volte, anzi spesso, negative. Altre affascinanti e capaci di fartelo sembrare un simpaticone con cui avresti voluto passare intere serate bevendo whiskey e raccontando storie.
Come quella del match contro Tiberio Mitri. Mille volte sussurrata, neppure una messa in piazza con tanto di documenti a sostegno.
Erano gli inizi degli Anni Cinquanta quando il grande sogno aveva travolto la vita del ragazzo triestino.
Era biondo Tiberio, fisico atletico, volto da attore. Ma tirava di boxe e lo faceva con ottimi risultati. Prima campione italiano dei medi, poi europeo. Adesso l’occasione mondiale. Arrivava con le parole di un messaggero dal nome famoso: Saverio Turiello. Era il portavoce di Jim “Big” Norris, il capo della famiglia, e di Frankie Carbo, il suo uomo fidato. Mitri avrebbe sfidato Jake LaMotta al Madison Square Garden di New York.
Era bello Tiberio, boxava bene. E aveva una moglie dalle curve generose. Fulvia Franco era stata eletta Miss Italia nel ’48, inseguiva il mito del cinema e gli Stati Uniti, soprattutto la costa californiana e Hollywood, sembravano una grande occasione anche per lei. Erano i tempi in cui le donne di successo portavano le gonne al polpaccio, avevano vitini di vespa, cappello e guanti in ogni stagione. Le maggiorate, così le chiamavano, avevano qualcosa in più. Forme generose da esaltare in abiti che strizzavano il corpo.
Tiberio Mitri e Fulvia Franco riempivano le cronache dei giornali, non solo di quelli sportivi. Il giorno delle nozze c’erano diecimila persone sul sagrato della chiesa. Formavano una coppia la cui fisicità prorompente incantava o intimidiva, a seconda della personalità di chi la subiva.
Tiberio aveva vinto a Parigi contro Dauthuille, aveva pareggiato a Londra con Dick Turpin, aveva conquistato l’europeo a Bruxelles contro Cyrille Delannoit, lo aveva difeso a Parigi con Jean Stock. Adesso c’era il Toro del Bronx, il Toro Scatenato che sarebbe stato raccontato molti anni dopo in modo meraviglioso da Robert De Niro in un film di Martin Scorsese.
Su quel match è stato detto e scritto di tutto.
Frank Carbo l’avrebbe messo in piedi disegnando anche il finale, LaMotta si era lasciato convincere. Il vice-capo della famiglia si sarebbe arreso solo quando il biondino italiano aveva mostrato a tutti che il Mondiale non l’avrebbe mai vinto. Non era l’uomo giusto per lui.
Toro Scatenato aveva aggredito il ragazzo italiano dal primo gong e si era fermato solo dopo l’ultima delle quindici riprese.
Tiberio era rimasto in piedi, coraggioso nella bufera. Ma aveva perso quasi ogni round di quella sfida, anche se due giudici su tre avevano faticato a registrare la sconfitta: Bert Grant 8-7, Joe Agnello 9-6, Mark Conn 12-3. Tutti, ovviamente, per La Motta.
Era il 12 luglio del ’50, avevo appena compiuto un anno. Quella volta non sedevo a bordo ring… Ma cè una sera che ho visto davvero da vicino Jake LaMotta. È una storia che ho già raccontato in occasione dei suoi ultimi compleanni, mi piace ricordarla ora che non c’è più.
Il 14 aprile dell’85 ero a Las Vegas per il mondiale Hagler vs Hearns che si sarebbe svolto il giorno dopo. Ero stato fortunato, mi avevano invitato alla festa dell’ennesimo matrimonio del Toro del Bronx.
Il vecchio Jake suonava un piano a coda bianco. Indossava uno smoking dello stesso colore, aveva un minuscolo papillon nero al collo di una camicia di un bianco accecante. Festeggiava le nozze civili con Theresa Miller, celebrava l’evento sulla scalinata accanto alla piscina all’aperto del Caesars Palace di Las Vegas. Era la sesta volta che si sposava e a giudicare dal sorriso sembrava proprio divertirsi.
Sedevo a un tavolo vicino al pianoforte, potevo sentire Jake mentre sparava battute a raffica.
«Una delle mie mogli era una donna davvero strana. Le piaceva fare l’amore sul sedile posteriore della nostra macchina. L’unica cosa che mi chiedeva, era di guidare con attenzione».
Pausa, il tempo per godersi l’applauso, poi un’altra battuta.
«Voi tutti ricorderete Vickie, la mia seconda moglie. Vickie era sempre preoccupata, diceva che non aveva nulla da indossare. Non le ho creduto fino a quando non l’ho vista su Playboy.»
A due tavoli dal mio c’era Sugar Ray Robinson. L’avevo visto qualche giorno prima, era stato un incontro triste. Il grande campione se ne stava afflosciato su una sedia alle mie spalle. Alla sua destra la moglie, a sinistra un amico che lo sorreggeva. Davanti a noi, su un ring che sembrava preso di peso da una sagra paesana Thomas Hearns faceva finta di allenarsi. Una sessione di guanti pubblica con uno sparring lento, impacciato, incapace di impegnarlo.
Eravamo al Convention Center, Ballroom Four, del Caesars Palace. Tappeti ovunque, musica a palla e in fondo alla sala un ring. I tifosi avevano pagato due dollari per entrare. C’erano tremila persone in sala. Chiasso, urla, nessuna possibilità di concentrarsi.
Hearns salutava gli amici, rilasciava un’intervista televisiva, mimava addirittura qualche scena comica. Faceva le figure con Emanuel Steward, il manager/maestro era impostato in guardia falsa come Hagler. A volte si concedevano un giochino per la platea. Hearns sparava un colpo cattivo, il manager schivava e il pugile si ritrovava a colpire solo l’aria.
Sugar Ray dietro di me mormorava parole senza senso, non riusciva a capire le domande che tifosi incantati gli ponevano a raffica, li guardava con occhi tristi, poi mi batteva su una spalla.
«Chi ha vinto?»
Credeva fosse un match, era una seduta di allenamento.
E neppure troppo intensa.
La moglie lo proteggeva, pregando tutti noi di rivolgerci a lei. La gente sembrava incapace di capire che il vecchio campione non era più in grado di calarsi nella realtà. Ormai viveva in un mondo così lontano dal nostro da non avere neppure un punto di contatto.
Del mitico Sugar Ray Robinson era rimasto ben poco. Una faccia stropicciata dagli anni e dalla malattia, i baffetti e nulla più. Il mitico campione non era in grado di articolare una frase che avesse un senso compiuto. Aveva gli occhi velati di tristezza e, forse, a poco meno di 64 anni sentiva la vita scappargli via.
Aveva uno strano corpo Jake LaMotta. Tozzo per essere un peso medio, con un gran testone, due piccole braccia muscolose che sembravano messe lì solo per tirare mazzate. Su quel volto duro e pieno di rabbia potevi leggere, tra le rughe, le battaglie di una vita. Mi era bastato vederlo da vicino per capire quanto avesse sofferto, quanto avesse fatto soffrire.
Erano tutti lì i grandi della boxe, nel giardino all’aperto del Caesar Palace. Accanto a Jake LaMotta e Sugar Ray Robinson c’erano Larry Holmes, Don Curry, Josè Torres. Erano lì per ammirare Marvin Hagler che avrebbe difeso il mondiale dei medi contro Thomas Hearns. Grandi campioni a cui LaMotta, almeno per una sera, aveva rubato la scena. Era tornato ad essere il protagonista assoluto. Un intrattenitore che, su testi di altri, si divertiva a prendere in giro anche se stesso.
«Lei ha divorziato perché io facevo a pugni con i colori delle tende».
Pausa, risate.
«Sono in gran forma per l’età che ho. Ogni arteria del mio corpo è dura come una roccia».
Altra pausa, altre risate.
«Mia moglie non si era accorta che ero un alcolizzato fino a quando, una notte, non mi ha visto sobrio».
Pausa, risate, applauso.
«Ehi Jake, raccontaci ancora quella su Rocky Graziano».
«Ve l’ho raccontata mille volte. Ma voi volete risentirla. E va bene. Quando il manager gli ha chiesto: “Vuoi combattere per la corona?”, lui ha risposto: “Uuhh, posso battere la Regina Elisabetta in tre round”. Vi giuro che è tutto vero, di mio non ho aggiunto una parola».
Era fatto così La Motta. Donne, alcool, sigari, pugni e battute. Bob Arum e Rodolfo Sabbatini mi avevano dato un invito per la sua festa di matrimonio e io mi stavo davvero divertendo.
Un’aria magica circondava la vigilia della grande sfida tra Hagler ed Hearns. Ci sentivamo un po’ tutti La Motta. Solo che noi non indossavamo lo smoking bianco e non suonavamo un pianoforte a coda in tinta.
Le parole contano molto nella vita, non sempre i pugili riescono ad usarle con la stessa abilità dei pugni. Il vecchio Jake sapeva farlo come se fossero armi. E non sbagliava un colpo.
Riposi in pace.
JAKE LA MOTTA
Altezza: 1.73
Vittorie: 84 (30 ko)
Sconfitte: 19
Pari: 3.
Campione mondiale dei medi: 1949/1950.
Campionati del mondo medi: 4 (3 vittorie, 1 sconfitta).
In attività: dal 1941 al 1954.
Ha battuto: Robinson, Zivic, Cerdan, Mitri.
Nato (New York, Stati Uniti) il 10 luglio 1921.
Morto: il 19 settembre 2017 per le complicazioni di una polmonite.
Dario Torromeo
(https://dartortorromeo.com)