Vincono, soprattutto, quelli che amano il ciclismo, perché uno così nasce sempre meno (facciamo due conti: Costante Girardengo del 1893, Alfredo Binda del 1902, Gino Bartali del 1914, Fausto Coppi del 1919, Eddy Merckx del 1945, lui del 1990). E vince perfino l’Unione ciclistica internazionale, una federazione in perenne crisi di credibilità, adesso per le bici con i motorini, ma lui il motorino ce l’ha per natura dentro le gambe.
Peter Sagan – campione del mondo, strada, professionisti, per la terza volta consecutiva: mai successo prima – era il Peter Pan della bicicletta, il Peter Pan in bicicletta. Ha cominciato a pedalare a nove anni. A suo modo, volava. A suo modo, si rifiutava di crescere, godendosi la vita fra pirati e fate. Non ha più smesso di volare e vincere. Allo sprint, in fuga, a cronometro, per distacco. Tappe, classiche, giri. Su muri, pavè, sterrati. Provando, rischiando, esagerando. Prima con l’istinto e la spontaneità, poi con il fiuto e l’esperienza, sempre con la potenza e l’esplosività. E con la forza del sorriso. Velocista, “finisseur”, passista. Parte sempre per vincere e arriva spesso da vincitore (più di cento volte in nove anni da professionista). Festeggia impennando la bici o tirando fuori la lingua. Un personaggio straordinario perché è esattamente così com’è, non c’è nulla di costruito, di prefabbricato, di finto o di ipocrita. E’ il Tomba delle due ruote, è il Valentino a pedali, è lo Zaytsev delle volate. Ed è quello che vince anche quando arriva secondo, come succede soltanto agli All Blacks.
Quella volta (Tour Down Under 2010) che è caduto in volata, è stato ricucito con una trentina di punti, la prima richiesta è stata “ma domani posso partire?”, non solo è partito, ma è anche andato in fuga e arrivato quarto. Quella volta (Tour de France 2012) che, con la maglia verde di primo nella classifica a punti, ha festeggiato la vittoria in volata imitando Hulk. Quella volta (secondo al Giro delle Fiandre 2013) che non ha resistito alla tentazione e si è regalato una palpatina a una miss mentre lei sul podio stava baciando Fabian Cancellara, primo. Quella volta (Tour de France 2017) che è stato prima retrocesso, poi squalificato ed espulso per avere rifilato una gomitata a Mark Cavendish in volata e averlo spedito contro le transenne, anche se la scorrettezza era stata del britannico. E questa volta (Mondiale 2017 a Bergen, Norvegia) che, a chi gli domandava perché fosse arrivato solo alla vigilia della corsa senza aver mai visionato il percorso, ha risposto che non ce n’era bisogno, che lo avrebbe fatto in gara, 12 giri del circuito finale, gliene sarebbe stato sufficiente uno solo. Infatti.
Sagan è una celebrità non solo nella sua Slovacchia ma anche a Dubai e ad Abu Dhabi, in California e in Canada, alla Tirreno-Adriatico e al BinckBank Tour. Fa il testimonial per la pubblicità di multinazionali, ma è capace di concedersi anche gratis, come quando ha cantato “La maglia rosa” per un album di Guido Foddis. E’ rock e rap, è capellone e poi improvvisamente a spazzola, è latte e miele ma quando ci vuole anche uno spritz o una birretta, è sposato e sta per diventare papà, e ha un cuore grande così: quando è morto Michele Scarponi, ha mollato tutto, ha affittato un aereo ed è volato al suo funerale. Il Peter Pan della bicicletta, il Peter Pan in bicicletta promette di continuare a volare. La maglia arcobaleno – il sole-Sagan dopo anni di tempesta-Armstrong – non poteva avere un successore migliore di lui. E domenica ha dimostrato che il ciclismo non è uno sport di squadra: lui ha vinto, ancora una volta, da solo. Solo contro tutti. Anche se quando vince lui, vincono tutti.
Marco Pastonesi