Diciamo che il cognome non lo aiuta: chiamarsi Immobile per uno che di mestiere fa l’attaccante non è il massimo della vita. Ma il soggetto in questione, che di nome fa Ciro (come Ferrara che lo scoprì nella periferia napoletana), è un calciatore tutt’altro che statico spinto da un momento di grazia e forse dalla forza del destino. Solo così può spiegarsi la sua impresa di Torino, la vittoria con una doppietta nella fortezza apparentemente inespugnabile della Juventus, la società che lo lanciò per poi scaricarlo lasciandolo, udite udite, all’odiato Toro.
Parlare adesso di promessa per un attaccante che ha 27 anni e una abbondante carriera alle spalle, sembra un esercizio poco attendibile. Immobile è esploso all’università di Zeman, che lo esaltò nel meraviglioso Pescara che si avvaleva anche di Verratti e Insigne, ma non è riuscito a confermarsi nel Borussia Dortmund e nemmeno nel Siviglia. Per vedersi realizzato ha dovuto aspettare la chiamata di Tare, il braccio destro di Lotito, specializzato in saldi di fine stagione. Nella Lazio, finalmente, Ciro ha trovato la sua dimensione che, si spera, possa trasferire anche nella squinternata nazionale di Ventura, un altro dei suoi pigmalioni.
Adesso, come si dice, se sono rose fioriranno ma si fa strada il sospetto che la prolificità di Immobile dipenda anche dall’imbrocchimento di molti difensori italiani. La Juve della famosa diga detta BBC è ormai un nostalgico ricordo ma per i romantici il finale della storia è già scritto negli astri.
Ci voleva un napoletano per abbattere la Juve e lanciare la prima fuga del Napoli verso lo scudetto. E ci vorranno due napoletani, Immobile più Insigne, per guadagnarsi la qualificazione ai mondiali in Russia. Che San Gennaro si illumini.
Enrico Maida