Ha quattordici anni Kelvin quando uno zio gli fa sognare un nuovo mondo. “Vai a Londra, lì c’è tuo padre.”
Ma a Londra il ragazzo trova solo qualcuno che lo accompagna in una casa dove è picchiato e affamato, ridotto quasi in uno stato di schiavitù, costretto a pulire stanze, bagni, cucina, corridoi senza avere in cambio niente. Neppure qualcosa da mangiare. Il papà non lo vedrà mai.
Kelvin vuole studiare, è bravo. Ma le scuole non lo accettano, non ha i documenti, è senza passaporto. Dalla schiavitù della Nigeria è passato a quella inglese. È in quel periodo che, avendo per compagni criminali con problemi mentali, si adatta alla situazione. Commette qualche crimine, piccole cose: fuma cannabis, guida senza licenza. Abbastanza comunque per convincere il Ministero degli Interni a non concedergli alcun documento di soggiorno, né tantomeno un permesso di lavoro.
Sposa una cittadina britannica con cui convive da sei anni. Chiede il visto come sposo di una persona con nazionalità e cittadinanza inglese, il Ministero degli Interni dichiara nullo il matrimonio essendo stato contratto quando la sua condizione di immigrato non era stata definita.
Cinque anni fa conosce Aamir Ali, il proprietario dello Stonebridge Boxing Club nella zona nord di Londra. Fa sparring con dilettanti bravi come Shane McGuigan, Luke Campbell e Anthony Joshua.
È bravo, appassionato. La boxe lo distrae dai mille problemi che gli frullano per la testa. Combatte, vince il campionato londinese dei pesi medi. Si batte sei volte per l’Inghilterra, in un’occasione il caso vuole che l’avversaria sia la Norvegia.
Tutti dicono un gran bene di lui. Potrebbe addirittura andare ai Giochi Olimpici di Rio 2016, ma il Ministero degli Interni gli nega il visto.
Barry McGuigan lo descrive come un vero talento. Frank Warren gli offre un contratto triennale con un minimo garantito di 230.000 sterline. Il manager Steve Goodwin gli propone un accordo con un programma di incontri già fissato. Ma lui non ha il permesso di lavoro. L’Amateur Boxing Association inglese chiede cinque volte il visto. Cinque volte il Ministero degli Interni lo nega.
La situazione è ormai scivolata nel paradossale.
L’Inghilterra non concede né passaporto, né permesso di lavoro.
Kelvin si rivolge alla Nigeria che gli nega la nazionalità, affermando che la madre non è di quel Paese e lui non ha documenti che accertino con assoluta certezza che sia nato lì.
Prova a chiedere alla Gran Bretagna il riconoscimento del suo stato di apolide, cioè di uomo privo di qualsiasi cittadinanza. Ma anche questo gli viene rifiutato.
Non ha un Paese che voglia riconoscerlo, ha offerte di lavoro ma deve rifiutarle perché il Ministero non gli concede il visto. Per vivere pulisce i bagni della palestra dove passa gran parte delle giornate.
La settimana scorsa otto poliziotti in borghese e due ufficiali in divisa entrano allo Stonebridge Boxing Club e lo trovano che si sta allenando.
Lo arrestano, lo portano al commissariato di Wembley per poi trasferirlo al penitenziario di Tinsley House. Danno inizio al processo di deportazione.
L’accusa è quella di non essersi presentato per tre volte al Centro Immigrazione. Kelvin non è andato perché soffre di depressione. È tutto documentato, ci sono medici pronti a confermare la diagnosi e a testimoniare che il paziente è in cura per un forte stato depressivo. Avrebbero potuto rivolgersi all’avvocato designato dal tribunale, sarebbero potuti andare al domicilio ufficiale. Hanno preferito fare irruzione in dieci, prelevarlo e cominciare l’iter per deportarlo.
La storia di Bilal Fawaz detto Kelvin, pugile di grandi potenzialità (giurano gli esperti inglesi), è ferma a questo punto. La Gran Bretagna non lo vuole, la Nigeria nega la sua esistenza, la stessa Inghilterra ha respinto la sua richiesta di essere riconosciuto come un apolide. Se non ci saranno novità in suo favore, sarà deportato. Anche se al momento non si sa dove, visto che la Nigeria non lo vuole.
È un fantasma che si aggira per Londra. Gli amici lo aiutano, per tutti gli altri è invisibile. Non esiste.
La paradossale vicenda è stata pubblicata da tutti i maggiori quotidiani britannici che hanno chiesto a gran voce l’intervento del Ministero degli Interni. L’ha fatto anche il Guardian che ha ricevuto questa risposta ufficiale.
“Quando qualcuno non ha il permesso di rimanere nel Regno Unito, ci aspettiamo che lasci il Paese volontariamente. Nel caso non lo faccia, faremo di tutto affinchè rispetti l’obbligo di andare via”.
Dario Torromeo
(https://dartortorromeo.com/)