Si sta allenando. Non partenze e ripetute, ma palleggi e dribbling. Non appoggi e falcate, ma cross e contrasti. Non passaggi di testimoni, ma passaggi ai compagni. Insomma: non atletica, ma calcio. Usain Bolt, otto ori olimpici fra 100, 200 e 4×100, in marzo sosterrà un provino – grazie al comune sponsor Puma – con il Borussia Dortmund. Il giamaicano, 31 anni, confessa di sentirsi un po’ nervoso, ma sbandiera fiducia e ambizioni: “Non mi accontento di essere uno dei tanti, voglio giocare in un campionato al vertice, voglio essere fra i migliori”.
Tant’è che il suo obiettivo è arrivare al Manchester United: sotto José Mourinho, con Zlatan Ibrahimovic e Paul Pogba, e fa niente se qui ci sarebbe un altro sponsor (Adidas). Il talento è il risultato di un incrocio genetico e il regalo di un intervento divino. Si dice che chi eccelle in uno sport, spesso potrebbe farlo anche in un altro. E la storia è ricca di atleti eclettici. Fin dall’antichità. Leonida di Rodi fu capace di imporsi in quattro edizioni delle Olimpiadi consecutive (dal 164 al 152 a.C.) in tre discipline: stadio (192,27 metri, la lunghezza della pista di Olimpia), diaulo (doppio stadio: 384,5 metri) e corsa degli opliti (un diaulo ma con elmo, corazza e scudo in bronzo). Ma era sempre corsa. Gorgo di Elide abbinò (le date sono sconosciute) quattro vittorie nel pentathlon a una vittoria nel diaulo e una nella corsa degli opliti. Il fuoriclasse della versatilità fu Nerone: nei Giochi olimpici del 67 d.C., edizione numero 211, l’imperatore romano si aggiudicò il primo posto fra i suonatori di lira, nella quadriga di puledri, nella gara per carri, fra i compositori di tragedie, nei carri trainati da 10 cavalli e fra gli araldi. Ma furono trionfi annunciati e previsti: per poter partecipare alle competizioni, lo spregiudicato Nerone aveva fatto spostare le Olimpiadi di due anni e tre delle sei gare (lira, tragedie e carri trainati da 10 cavalli) le aveva istituite lui.
Nell’era moderna gli esempi olimpici e olimpionici si moltiplicano quando le discipline sono imparentate: come per lo statunitense Johnny Weissmuller, il Tarzan cinematografico, nel nuoto e nella pallanuoto (1924 e 1928); per lo statunitense Karch Kiraly nella pallavolo e nel beach volley (1984 e 1996); per l’italiana Gerda Weissensteiner nel bob e nello slittino (1994 e 2006). Ci sono matrimoni quasi inevitabili (i francesi Jean Collas, Charles Gondouin ed Emile Sarrade nel rugby e nel tiro alla fune, nel 1900) e altri più sorprendenti (il belga Fernand de Montigny con scherma e hockey, nel 1908 e 1924, e l’inglese Rebecca Romero con ciclismo e canottaggio, nel 2004 e 2008). E c’è chi è riuscito anche a collezionare cinque anelli sia d’estate sia d’inverno: come lo statunitense Eddie Egan, oro nel pugilato nel 1920 e oro nel bob a quattro nel 1932. O quasi: come il norvegese Jacob Thams, oro nel salto con gli sci nel 1924 e argento nella vela nel 1936.
Una volta era più facile. Giuseppe Ticozzelli da Castelnovetto, Pavia, classe 1894, era una forza della natura, 1,87 per quasi un quintale, e 84 centimetri di giro coscia. Calcio e ciclismo, ma avrebbe potuto eccellere anche nell’atletica (era accreditato di 12” nei 100 metri). Nel 1912 fu tra i giocatori-fondatori dell’Alessandria, dopo la Prima guerra mondiale (tenente d’artiglieria da montagna, con tre croci al valore e una medaglia di bronzo), cominciò a divertirsi: terzino, prima nell’Alessandria, poi nella Spal e nel Casale, e una partita in Nazionale, nel 1920, contro la Francia (9- 4). Quel giorno si recò allo stadio, il Sempione, a Milano, in bici. E in bici, nel 1926, “il Tico” avrebbe partecipato al Giro d’Italia come indipendente, cioè non ingaggiato né assistito da una casa costruttrice di biciclette. Nella terza tappa, la Genova-Firenze, Ticozzelli andò in fuga, guadagnò un’ora di vantaggio, alle prime rampe del Passo del Bracco, rimasto senza rifornimenti, si fermò in una trattoria, sistemò il tavolo sul bordo della strada per non perdere di vista gli inseguitori e mangiò finché non sopraggiunse il gruppo. Solo allora si rimise in sella e ripartì. Vicino al traguardo cadde per colpa di un motociclista, ma giunse comunque al traguardo. Però, per le ferite, non ripartì.
E “Maci”: Mario Battaglini, detto Maciste, abbreviato in “Maci”, il primo fuoriclasse del rugby italiano, il primo formato esportazione, scudetti da giocatore e allenatore fra Milano e Rovigo, Treviso e Padova, Bologna e Fiamme Oro, e anche formato esportazione (tre anni in Francia), dagli anni Trenta in poi. “Maci” aveva il fisico, ma anche la testa, poteva giocare in tutto i ruoli e perfino piazzava. Si racconta di un giorno in cui, ragazzo, disputò tre match, il primo di basket, il secondo di rugby, il terzo di boxe, battendo quello che poi sarebbe diventato il campione italiano dei massimi.
Oggi la concorrenza è più alta e sofisticata: Renaldo Nehemiah ha fatto un’andata-e- ritorno dai 110 ostacoli al football americano, Michael Jordan è passato dal basket al baseball ma senza mai schiacciare, Bradley Wiggins sta tentando di traslocare dal ciclismo al canottaggio.
Sarà dura per Bolt trovare la corsia libera.
Marco Pastonesi