Settimana strana (per quelli come me), settimana senza pallone. Ad aspettare la ripresa, distratti dal mercato e imbarazzati dalle notizie in arrivo dalla Federcalcio, dove tutto sembra destinato a ripetersi. Come se nulla fosse accaduto, come se Italia-Svezia non si fosse mai giocata e Ventura fosse ancora l’onesto allenatore di oneste squadre di metà classifica.
Accennavamo al mercato: fiera delle sirene e sciocchezzario buono per quasi tutte le stagioni. Sono le settimane in cui, dopo il relativo letargo autunnale, tornano a imperversare i procuratori.
Inseguiti, blanditi, venerati da legioni di cronisti, ormai spesso credono di essere loro i protagonisti della giostra. Mica i calciatori, perlopiù utili a questo Monopoli del terzo millennio, dove capita che onesti ragazzotti, come il brasilero Coutinho, finiscano per essere pagati come un pezzo di manovra economica. Una volta, guardando al calcio, si parlava di ricchi scemi. Oggi, i ricchi sono ricchissimi e gli scemi rischiano di essere quelli che credono si possa vincere programmando e non lasciando far tutto al super-procuratore di turno.
Eppure (forse siamo scemi sul serio), alcuni di noi ci credono ancora: si emozionano pochissimo a inseguire ex-pizzaiuoli d’assalto o leccatissime parodie di yuppies anni ’90, preferendo il calcio dei sogni. Di questi ultimi, quale può essere più grande e apparentemente illogico, che uno scudetto al Napoli? Buonissima squadra, per carità, allenatore che va per la maggiore (oltre che bravissimo), società sana. Tutto vero, ma anche poca roba, rispetto alle multinazionali, che vanno per la maggiore oggi. Non è solo un problema di fatturati, tanto cari a Sarri, ma di strutture, dimensioni della proprietà, agganci, politica sportiva. Da questo punto vista, un titolo azzurro avrebbe del semi-miracoloso. Eppure, se parliamo di calcio, risponderebbe a pura logica. La squadra è “corta”, ma perfetta, per quello che vuole fare l’allenatore. Superstar non ce ne sono, se non nate in casa o sbocciate ai limiti dell’anzianità pallonara, rispettivamente nei casi di Insigne e Mertens. I giocatori sono da anni più o meno gli stessi e la formazione la si può recitare a memoria. Puro anacronismo, questo. Gli stipendi di allenatore e rosa sono alti, ma fanno il solletico a un Liverpool qualsiasi. Non parliamo neppure della Juventus o dei colossi europei. Insomma, il Napoli sarebbe un mezzo imbucato alle feste dei grandi, se non fosse esattamente ciò che vuole essere: una squadra per vincere lo scudetto. Seguendo un’idea di calcio, basata sulla qualità, il possesso e l’attacco. Diventando, non a caso, la passione di Arrigo Sacchi, l’eretico che da 30 anni va dicendo che il risultato non è tutto.
Vincerà? Non ne abbiamo la minima idea. Forse sì, probabilmente no. Vista la forza, la ferocia e l’abitudine della Juve. Siamo certi, però, che un’anomalia così vada studiata e protetta. Perché l’alternativa non è tanto il settimo scudetto consecutivo bianconero (la Juve è il felicissimo, ma unico esempio di club italiano che possa sedersi allo stesso tavolo di Real, Barca e United), ma un calcio sempre più “lontano”. Povero del sogno alla base della poesia dello sport: che ogni tanto non sia il più ricco (o forte) a vincere.
Fulvio Giuliani