Una piccola città, un singolare gruppo di uomini che si guadagna la vita salendo sul ring. E perdendo. È una storia triste, ma dentro di me ha sempre suscitato un fascino malinconico, lo stesso che provo guardando vecchi magnifici film. Ve la ripropongo.
Tomato can. Gli americani li chiamano così, lattina di pomodoro. Se la rompi uno schizzo rosso esplode e riempie il corpo di quei perdenti di professione che da sempre attraversano il mondo del pugilato.
Ashtabula è una piccola città di ventimila abitanti a nord est di Cleveland, Ohio. Bob Dylan l’ha accostata a San Francisco in “You’re gonna make me lonesome when you go”, ma questo porto sul lago Erie tra il popolo della boxe ha lasciato ricordi meno poetici.
Ti cercherò nella vecchia Honolulu,
San Francisco e Ashtabula,
Adesso dovrai lasciarmi, lo so.
Ma ti vedrò nel cielo sopra di noi,
Nell’erba alta, in quelli che amo,
Mi lascerai solo quando te ne andrai
Tomato Can Capital, ma anche Hall of Shame. Dove vergogna (shame) prende il posto di fama (fame).
Nel 1996 gli Stati hanno imposto la tessera federale di riconoscimento per ogni pugile che volesse combattere sul territorio americano. Nei cinque anni successivi Ashtabula ha mandato in giro per il mondo pugili che a fine 2001 avevano un record complessivo di 25 vittorie e 379 sconfitte, 343 delle quali per knock out.
L’uomo che ha partecipato in maniera determinante a questo delitto sportivo si chiama James Holly, uno che si è fatto anche chiamare Virgil Holly o James Robinson. Un espediente usato per salire sul ring senza portarsi dietro le espulsioni che uno dopo l’altro sei Stati avevano decratato contro lui.
Ha combattuto dal 1983 al 2000 e non ha mai sentito il suono dell’ultimo gong. Cinque vittorie e cinquantacinque sconfitte. Tutte per knock out. Trentuno volte è andato giù per il conto totale nel primo round.
Boxava da peso massimo. Un ragazzone alto 191 centimetri, con un peso che oscillava tra i 93 e i 114 chili. Mancino. Cranio rasato, baffoni spioventi. Scarso allenamento e una passione sfrentata per l’altro sesso.
“Se non ci fossero state le donne, sarei arrivato al titolo.”
Combatteva con il minimo preavviso, la telefonata poteva arrivare sino a 48 ore dal match e lui si presentava sul luogo della riunione.
Un solo momento di luce in una carriera per il resto totalmente buia.
Il telefono aveva suonato la mattina del 12 aprile del 1989. All’altro capo del filo c’era l’organizzatore Jerry Thomas.
-Ehi James, ci sono 600 dollari pronti per te
“Come si chiama l’altro?“
-Sam Scaaf
“Quante riprese?”
-Sei.
“Dove si combatte?”
-Parkesburg, West Virginia
“Arrivo.”
Andava sempre così. Non discuteva mai la borsa. Non faceva storie sul nome dell’avversario, che quella volta era il campione dello Stato. Holly non combatteva da quasi un anno, sino a quel momento aveva perso 17 match su 19 e tutte le sconfitte erano arrivate per ko.
Quella sera però il sinistro di James era andato a bersaglio e Scaaf era finito giù.
Dieci e out. Knock out al primo round.
Poi le sconfitte erano tornate ad essere la normalità nella vita pugilistica di James Holly che nel 2000 era stato fermato definitivamente dalla Commissione.
Era stato a quel punto che aveva tirato su un ring nel giardino di casa. L’aveva costruito mettendo assieme la porta del garage, del compensato, un vecchio tappeto del salone, teli di canapa e vecchie corde. Lì faceva allenare i pugili della sua scuderia. Gente presa per strada, uomini che non avevano mai boxato in vita loro. Un lavoro che faceva già da qualche anno, ma che dopo il ritiro aveva intensificato.
La vita ad Ashtabula era dura. La disoccupazione era alta e il pugilato sembrava un modo veloce per guadagnare qualcosa. Le borse che offriva andavano da 100 a 200 dollari, fino a 2000 per match trasmessi in televisione, 3000 se si andava a combattere oltreoceano.
Raccattava fighter ovunque. Lo avevano sopannominato James “quanto pesi?” Holly.
-Ehi tu, dico a te ragazzo
“Sì?”
-Quanto pesi?
“Centossesanta libbre.”
-Ce la fai a scendere a 154?
“Per cosa?”
-Vuoi combattere?
“Ma io non sono un pugile.”
-Duecento dollari per un match tra tre giorni.
“Dove devo firmare?”
Aveva messo assieme una trentina di uomini pronti per ogni occasione. Una telefonata, l’accordo sulla parola e quelli partivano. Come l’uomo che li aveva assunti, anche loro perdevano quasi sempre. E lo facevano velocemente.
C’era Mario Hereford. Venti match, venti sconfitte, diciassette per ko.
Exum Peight che aveva chiuso la carriera con 9 vittorie, 39 sconfitte e 2 pari.
George Harris aveva messo assieme 2 successi. Poi aveva perso 35 volte per ko e due ai punti.
Holly ne caricava fino a quindici su un vecchio camion che batteva il Nord America senza sosta. Un’autentica vergogna, un’offesa per chiunque amasse la boxe, lo sport.
In giro dicevano che alcuni dei pugili di Holly salissero sul ring addirittura ubriachi o pieni di droga. Non è stato mai provato.
Non si hanno recenti notizie su di lui. Le ultime informazioni lo danno ancora ad Ashtabula dove il prossimo 2 giugno compirà 60 anni. Non sembra frequenti più l’ambiente e il pugilato non ne sente certo la mancanza. James “quanto pesi?” Holly è la faccia brutta del pugilato. La sua storia sembra appartenere alla società di fine Ottocento, invece è cronaca assai vicina ai nostri giorni.
I perdenti fissi continuano ad esistere, ci passano davanti agli occhi decine di volte impegnati in ring di provincia, ma anche in riunioni importanti.
Promoter senza scrupoli si difendono utilizzando da sempre la stessa scusa.
“Bisogna sapere leggere un record, bisogna capire contro chi hanno perso.”
Quasi che 55 sconfitte per ko non siano un motivo abbastanza valido per bloccare la carriera. Qualsiasi siano stati i suoi avversari.
La Città della Vergogna.
Non credo che Ashtabula vada orgogliosa del soprannome che James Holly le ha procurato in anni di batoste sui ring dell’America intera.
Dario Torrome
(https://dartortorromeo.com/)