Con il Galles abbiamo perso 33-7, con l’Irlanda 63-10, e con l’aggravante che tutte e due le partite sono state giocate in casa. Quella con i verdi irlandesi è stata – statisticamente ma anche moralmente – la più netta e dolorosa sconfitta
in diciotto anni di Sei Nazioni: nove mete, di cui una segnata in inferiorità numerica, a una. Le prime due giornate del torneo ci hanno regalato doppie sconfitte anche fra gli Under 20 e fra le donne. Il commento più efficace è apparso su Facebook: che bello il Cinque Nazioni, e che bella l’idea di far giocare in amichevole contro l’Italia la squadra che si riposa.
Il rugby italiano ha fatto sboom. Non sono soltanto le squadre nazionali a non reggere il confronto con le tradizionali avversarie invernali (i prossimi incontri con Inghilterra, Francia e Scozia potrebbero addirittura rivelarsi ancora più difficili e umilianti), ma anche le franchigie che disputano la Celtic League (Benetton e Zebre sono le ultime due in classifica) e i club che partecipano alle coppe europee collezionano figuracce. Tant’è vero che nella graduatoria mondiale (prima la Nuova Zelanda, seconda l’Inghilterra, terza l’Australia), l’Italia è scesa di un’altra posizione, ora si trova al numero quattordici, scavalcata da Tonga, staccata dalla Georgia dodicesima e incalzata dalla Romania sedicesima. E da tempo si parla di un eventuale avvicendamento proprio con la Georgia nel Sei Nazioni, fonte di introiti e di prestigio.
E – purtroppo – le cattive notizie non si fermano qui. All’Olimpico gli spettatori per il match contro il Galles erano 40983 e contro l’Irlanda 52mila circa (molti se ne sono andati prima della fine della partita, ignorando la festa del terzo tempo subito fuori dallo stadio: mai accaduto prima), con un calo di circa 30mila spettatori rispetto agli scorsi anni (la media era uno stadio quasi sempre esaurito: 60-65mila posti), e che si traduce in un incasso mancato intorno ai 900mila euro. Un gravissimo problema economico per una Federazione che, nonostante i ricchi diritti televisivi, è riuscita nell’impresa di presentare un bilancio negativo, con voci poco chiare, e qualche acrobazia amministrativa.
Che cos’è successo al rugby italiano, che sembrava poter continuare a vivere la sua età dell’oro? Cento ragioni. Innanzitutto la politica di dedicare le proprie forze (in particolare quelle economiche) soprattutto alla nazionale maggiore trascurando la base ha regalato (a caro prezzo) qualche vittoria illusoria agli azzurri, ma non ha migliorato le condizioni per chi al rugby si avvicina, oggi come mai avvenuto prima, a tutti i livelli, a cominciare dal minirugby, e poi le donne, perfino gli Old (chi ha più di 42 anni: un movimento che fa comunque numero, movimento, anche cultura) e il settore Uisp (fuori dall’orbita federale, ma parallelo). Alla base (che comprende anche il settore scolastico, anche questo in gran parte lasciato all’iniziativa di allenatori missionari delle società locali), tutto è affidato al volontariato e alle autotassazioni, all’arte di arrangiarsi, spesso in condizioni molto precarie per quanto riguarda i campi e gli allenatori. E senza campi e senza allenatori non si va da nessuna parte. Lo scollamento fra il vertice e la base testimonia la frammentazione di un popolo sconfortato, avvilito, forse rassegnato.
Anche la politica delle accademie – collegi federali dove i ragazzi vengono trattati molto più da giocatori che da studenti – non ha portato alcun significativo miglioramento, semmai ha destato qualche perplessità sulla opportunità di staccare questi eletti dai club e dalle famiglie senza certe prospettive, e ha comunque creato strutture costose ed esigenti.
E qualche colpa ce l’ha anche la stampa, che per tanto, troppo tempo si è accontentata di sconfitte onorevoli, di progressi impercettibili, di partite perse ma concluse in attacco, minimizzando sulla differenza tecnica o glissando sui risultati ma insistendo sui valori umani (che esistono, e che resistono) della disciplina.
La verità è che il credito del rugby è finito, è finito non da adesso ma già da qualche anno, ma solo adesso l’onda lunga della passione, e un po’ anche della moda, si è smorzata. E la gente è semplicemente stanca di una nazionale che non vince (quasi) mai e che le prende sempre. E’ vero che si gioca con squadre superiori in graduatoria. Ma è anche vero che, continuando così, il numero di queste squadre sarà destinato ad allargarsi. E il divario ad aumentare.
Finora Conor O’Shea, il tecnico irlandese a capo dell’Italia, ha difeso la squadra e ribadito l’impegno, ma si intuisce il suo disagio. E Sergio Parisse, il capitano degli azzurri e stella del firmamento internazionale ovale, che ha dichiarato “rialziamo questa cazzo di testa”, è l’immagine della nostra impotenza.