Non si può capire Oscar Washington Tabarez, senza passare dalle notte dei tempi calcistici. Dall’Uruguay del 1930, dal mito di Jose Nasazzi, “El Gran Mariscal”, e del primo Mondiale di sempre, vinto in casa contro i nemici di sempre, la vicina e potente Argentina. Non ci sarebbe stato Tabarez, senza il Maracanazo, l’Uruguay eroico e maledetto (per i brasiliani) del ’50. Ghiggia che stende un Paese intero e stampa se stesso nel mito, in quel frame sgranato del 2-1 al povero portiere Barbosa. Non parleremmo di Tabarez, senza la leggenda della “Garra”, termine intraducibile in italiano e avvicinabile solo dalla napoletana “cazzimma”. Bandiera di un popolo interno, la Garra, quasi come il drappo biancoazzurro. Come potremmo provare a comprendere il Maestro, senza tutto questo? Tabarez poteva nascere solo in Sud America, ma poteva essere solo uruguagio, nella sua specialissima declinazione dell’amore per il calcio e la sua terra. Lontano dall’esplosività, costantemente venata di dramma, del Brasile. Distinto dall’anima tormentata e egocentrica dell’Argentina. Oscar Tabarez è l’Uruguay, costretto a inventarsi sempre qualcosa, per sopravvivere fra i giganti, che gli sono toccati in sorte come vicini.
Giuliani: “Onore a Tabarez, il maestro ideale, il simbolo della “Garra”, la napoletana “cazzimma” dell’Uruguay”
La malattia sta progressivamente bloccando i movimenti dell’allenatore uruguagio che, col suo carisma, illumina i sogni di Cavani & compagni