La vita è bella perché ti sorprende continuamente. O, meglio, è bella finché ti continua a sorprendere. Altrimenti, qualsiasi sia l’età anagrafica, sei comunque spento, finito. Io sono fortunato, perché ancora amo sorprendermi. E, al risveglio, davanti al sole e al mare della vacanza ferragostana, per una volta, ho avuto una bella sorpresa nello sfogliare il mio vecchio giornale, online. Perché anch’io, figlio del “piombo”, cioé di quando i giornali si stampavano in un modo completamente diverso, ormai riesco a leggere i quotidiani solo sul web. Così, scorrendo la pagina specifica che in genere volo, pur nel segmento in basso, schiacciato da pensieri più possenti, ho letto un concetto che mi ha regalato un sorriso orgoglioso – io che alla Gazzetta ci sono nato e cresciuto e ci sono rimasto, felice, per 34 anni -, e stupito. Perché, dal forzato addio del 2015, sono rimasto comunque legato alla Rosea. Non per volontà mia, ma perché, al grido di “il web è di tutti”, ci ho ritrovato le mie idee e le mie espressioni che propongo comunque altrove, fino al punto di rispecchiarmi in interi capoversi e anche in titoli “made in Martucci”. Ma stamattina no, stamattina, a sorpresa, la Gazza ha espresso un concetto che ero sul punto di scrivere io. Magari è concetto non unico, ma mio. A meravigliarmi è stato uno dei pochi amici veri che ho nel mondo che frequento dagli anni 70, Paolo Bertolucci, che ho conosciuto meglio quando era capitano di coppa Davis e che ho stimato sempre di più, tanto da invitarlo ad accompagnarmi alla Gazzetta e a seguirlo nelle telecronache di tennis cui, spesso, lo confesso, tolgo l’audio. Perché – almeno per me – sono per non vedenti.
Sono stato troppo lungo e autoreferenziale, lo confesso, ho disatteso una delle regole auree cui tenevo – troppo – quando scrivevo per la gloriosa Rosea di Candido Cannavò prima e di Carlo Verdelli poi. Vengo al punto. “La Davis era in crisi, ma con questa rivoluzione, è morta, troviamole un altro nome”, scrive l’amico Bertolucci. E mi lascia così con la penna sospesa sulla carta che poi oggi equivale al dito sospeso sul computer, in cerca di un’altra idea, di un altro spunto. Che proprio non sono riuscito a trovare, malgrado l’aiuto di un caffè.
Allora, come spesso mi succede, mi sono immerso nella lettura del famoso web, che dovrebbe essere spunto e non copia-copia di noi giornalisti, o prigionieri del sogno-giornalismo, e ho notato un paio di cosucce stuzzicanti. Proprio nel giorno in cui il presidente della federtennis mondiale, lo statunitense David Haggerty, cancella il quinto set nella ora a squadre più famosa dello sport dopo 118 anni di onoratissima carriera, Roger Federer, la punta di diamante di questo sport dichiara serafico: “Se potessi cambiare qualcosa del tennis, aggiungerei qualche match al quinto set, magari nelle finali dei tornei Masters 1000. Perché a me sono serviti molto nella mia crescita e mi hanno aiutato poi negli Slam, dove si giocano partite così diverse da quelle al meglio dei tre set”. E uno dei massimi rappresentanti della globalizzazione, il 18enne Felix Auger Aliassime, di natali e bandiera canadese, e genitori del Togo, cinguetta via twitter: “Uno dei più grandi desideri, da bambino, era un giorno di giocare la finale di coppa davis davanti al pubblico di casa. Purtroppo, non potrò mai vivere questa esperienza, non potrò realizzare questo sogno col quale sono cresciuto. Malgrado avessi sperato che la tradizione e la storia avessero la meglio sul denaro, devo constatare che oggi questa è la realtà”.
Le lettere aperte, in pratica le grida di dolore, di ex giocatori di nome, come lo spagnolo Manolo Santana e l’australiano Lleyton Hewitt, pur così diversi in tutto e così lontani come epoca, erano dello stesso tenore. Ma i 3 miliardi di dollari promessi dal calciatore e manager Gerard Piqué hanno convinto anche nazioni dalle grandi tradizioni tennistiche come Francia e Spagna, decidendo la votazione all’assemblea mondiale di Orlando, in Florida, a favore della rivoluzione, con un netta percentuale: 71,43% sì e 28,57% no. Hanno vinto le tv: grazie alle wild card, potranno assicurarsi la presenza delle maggiori star alle finali, in sede unica, con tempi di giochi più ristretti e spot pubblicitari programmabili. Il campionato mondiale di tennis, dal valore sportivo sempre più tenue e dalla connotazione sempre più omologata ad altre manifestazioni di altri sport, si svolgerà in sede unica, a novembre, in un mese già durissimo per gli atleti. La selezione capillare verrà – falsamente – garantita dalla fase preliminare di febbraio con 24 squadre che si affronteranno con la vecchia formula promuovendo 12 squadre ala fase finale, insieme alle 4 semifinaliste dell’anno prima, più 2 wild card (inviti degli organizzatori, presumibilmente la squadra della nazione ospitante e quella con l’atleta più forte o “vendibile” del momento), per un totale di 18 squadre partecipanti. Che saranno poi divise in sei gironi di tre squadre ciascuno, con le sei migliori (set e game vinti), più le due migliori seconde che si affronteranno ad eliminazione diretta, quarti, semifinali e finali (un solo giorno di gara, con due singolari e un doppio, sempre al meglio di tre set come tutte le gare della nuova gara ITF, con tie-break al set decisivo). Le squadre classificate al 17° e 18° posto retrocederanno nei gruppi di zona, le 12 fra il 5° e il 16° posto parteciperanno ai preliminari dell’anno successivo.
La natura prettamente commerciale della rivoluzione è evidenziata dal fatto che il voto decisivo della Francia viene ripagato dalla prima edizione della Coppa che si terrà nel 2019 allo stadio Pierre-Mauroy di Lille, l’impianto di calcio che ha già ospitato le finali di Davis del 2014 e del 2017. La Spagna – altro sponsor di questo cambiamento epocale – dovrebbe spuntarla per la seconda edizione alla Caja Magica di Madrid, che ospita il Masters 1000 e vanta tre campi col tetto retrattile. E un super affarista come Larry Ellison, patron di Oracle, è uscito allo scoperto, finanziando l’operazione, col chiaro intento di ospitare la terza edizione a Indian Wells, sede del torneo Masters 1000 più vicino agli Slam.
Comunque vada, ci agganciamo all’amico Bertolucci e, nel salutare la scomparsa della cara, vecchia, coppa Davis, auspichiamo che ne vengano almeno salvaguardati i 118 anni di storia, cambiando il nome della nuova competizione. Amen. Ma, poiché non ci nascondiamo, diciamo pure che la Coppa andava ristudiata, ritoccata, modernizzata, riposizionata nel calendario perché era in affanno da tempo. Forse doveva diventare biennale come la Ryder Cup del golf, così come il tennis tutto, avrebbe dovuto mutuare da quello sport altri concetti legati al professionismo più puro e selettivo. Sicuramente, i giocatori non sono in grado di badare al loro futuro e, sempre così attaccati all’oggi e al dio denaro, sono i peggiori nemici di se stessi. Ma certamente i dirigenti dilettanti dello sport moderno sono sempre più inadatti al compito e vulnerabili davanti ai manager professionisti. Una cosa è sicura: lo spirito della Davis trascendeva dallo spirito dei tornei normali, proprio perché attingeva al nazionalismo, all’orgoglio di bandiera, all’idea di impresa se non addirittura di miracolo sportivo. E questo spirito, oggi, muore definitivamente in modo ufficiale e rivivrà nelle bandiere sventolate in tribuna, nei ragazzi dipinti coi colori nazionali in quel paradiso dello sport degli Australian Open. Non a caso, lo Slam del sorriso.
Vincenzo Martucci
PS se fossi stato ancora alla Rosea, avrei cercato di promuovere un referendum mondiale contro questo scempio, creando un movimento d’opinione che fosse molto ma molto più influente del famoso trofeo Gazzetta.