Queste qualità non potevano essersi disciolte nella crisi personale di chi, abbattendo anche il tabù Roland Garros, aveva raggiunto tutti gli obiettivi tennisticamente possibili. Né dal “pace e amore” del pittoresco guru Pepe Imaz che gli era stato prestato dal fratello, annacquandone per un po’ la rabbia agonistica ed allontanandolo dalla palestra e dal campo di allenamento, oltre che dalla condanna di numero 1 in tutti campi della vita. Poteva essersi rotto qualcosa, dentro, come era già successo ad appena 26 anni a quell’altro fenomeno di volontà chiamato Bjorn Borg negli anni 80. Ma, rivincendo Wimbledon e ribadendo la superiorità contro Roger Federer nella finale di Cincinnati, ora che s’è messo in tasca il trionfo Slam numero 13 (con Nadal a 17 e Roger a 20) e il 24-22 nel testa a testa col Fenomeno, Nole può serenamente dire anche a se stesso di essere tornato ai livelli del 2015-2016, quando era il “cannibale” che terrorizzava il tennis tutto, inclusa la coppia d’assi, Nadal & Federer. E questo aldilà del 31° titolo Masters 1000 e del numero 6 del mondo appena acquisiti. Perché ha saputo reagire ancora una volta alle avversità: ha perso 6 volte su 9 dopo il rientro alle gare di marzo, sulla scia dell’operazione al gomito, ma poi ha piazzato questo parziale vittorie-sconfitte di 19-2 che lo riporta direttamente in vetta. Restituendogli anche tutti quei comportamenti, il famoso body language, del leone della foresta: dagli urlacci verso il cielo, alle racchette frantumate, dalle proteste con l’arbitro (per le consuete perdite di tempo al servizio) alle scariche liberatorie di adrenalina post-match.
Nole, che per tornare alle origini ha lasciato i super coach, è tornato al maestro di sempre, il silenzioso/concreto Marjan Vajda, e sicuramente ha ravvivato con qualche bistecca e un po’ di zuccheri la dieta vegana, sa benissimo come funzionano i meccanismi della fiducia. Sa che questo successo di Cincinnati lo promuove come primo favorito agli Us Open che scattano lunedì a New York e lasciano un segno importante nel morale di Federer, che ha colpito direttamente sul campo, come in quello di Nadal, che aveva colpito poco prima, nelle semifinali sull’erba di Wimbledon con quel 10-8 al quinto set che ha portato a 27-25 il bilancio anche contro l’altro fantastico rivale di vertice. Nole sa anche – come suggeriva Riccardo Piatti, che lo ha seguito da vicino nel suo ritorno nell’Accademia di Bordighera – che non può togliere il piede dall’acceleratore dell’allenamento, serio e duro, che caratterizza gli ambiziosi. E quindi i campioni. Soprattutto in considerazione del fatto che sia Roger che Rafa hanno qualche evidente deficit fisico, evidenziato dai consueti stop, ahiloro, anche a gara in corsa.
Con tutto il rispetto per l’impresa di Djokovic, tale si deve infatti considerare la giornataccia di Roger a Cincinnati, che segue peraltro la giornataccia a Wimbledon contro Anderson. Il doppio match di venerdì – Leo Mayer più Wawrinka – e il tie-break di sabato contro Goffin hanno svuotato di energie e di idee il campione svizzero. Che, proprio come ai Championships, è apparso più lento che mai, irriconoscibile rispetto alla partita precedente, evidenziando in modo un po’ inquietante la differenza d’età, 37 anni contro i 31 di Djokovic, smarrendo totalmente lo scatto alla risposta e il dritto (20 errori gratuiti), nel marasma di 39 non forzati. Troppi regali. Come dicono in modo diverso i protagonisti di Cincinnati, l’uno, rifiutando l’alibi così evidente per elogiare il vincitore – “Congratulazioni, hai scritto la storia, devi esserne molto orgoglioso, bravo” -, l’altro ammettendo che quello di domenica non era “il miglior Federer”. Ma, pure a New York, dove i due si ritroveranno, Djokovic ha battuto anche il migliore Federer…
di Vincenzo Martucci
(tratto da federtennis.it)