Ha perso per la terza volta consecutiva. Da tempo Clemente Russo non è più in cima al mondo. È stato sconfitto in otto degli ultimi 22 match, eliminato al secondo turno ai Giochi di Rio, costretto a fare il salto di categoria e passare nei supermassimi. Cosa imbarazzante per uno che era già piccolo di statura tra i massimi. E soprattutto, a 36 anni, ha una carriera dilettantistica logorante alle spalle: 263 incontri con 211 vittorie.
Ha perso contro un modesto spagnolo ai campionati UE in un match fatto più di scorrettezze che di boxe vera.
La realtà non ha però modificato di una virgola l’opinione del popolo della boxe. Accade in politica e nella vita, perché nello sport dovrebbe andare diversamente?
Chi non l’ha mai sopportato ne ha approfittato per infierire, traendo da una serie di eventi recenti lo spunto per giudicare fallimentare l’intera carriera.
Come se due argenti olimpici e due ori mondiali, la conquista delle WSB, i successi su Danny Price, Oleksandr Usyk, Deontay Wilder, Egor Mekhontsev potessero essere il frutto solo di una fortuna sfacciata.
Chi invece sostiene che il suo attuale valore sia lo stesso dei tempi d’oro, lo fa a prescindere dai risultati e continua a indicare come incidenti di percorso anche le tre sconfitte consecutive contro rivali non di primo piano.
Russo è uno che nel pentolone mediatico c’è finito dal primo momento in cui è salito sul ring. Gli insulti che ha ricevuto sono stati spesso in numero superiore ai complimenti.
Capisco che si possa non gradire il suo modo di boxare. Anche a me non piace, anzi è uno stile che proprio non sopporto. È un pugilato fatto più di astuzia ed esperienza che di un talento classico. È vero, spesso porta sventole larghe che finiscono sul bersaglio, schiaffi senza valore. Ma non ci sto quando sento dire che non è stato un campione tra i dilettanti.
Anche perché ha sempre inseguito e raggiunto il successo con determinazione. Ricordate la semifinale dei Giochi di Londra 2012? Contro Mammadov sembrava fosse finita dopo appena un round e due conteggi. E invece ne è uscito vincitore.
Quando in una calda mattinata londinese, sei anni fa, gli avevo chiesto quale fosse la chiave delle sue vittorie, mi aveva risposto con quel sorriso con cui sembra prendere in giro il mondo intero.
“Cuore e testa. Vinco così. Il cuore per trovare il coraggio di soffrire, la testa per motivazioni e orgoglio.”
Gli ricordavo i fischi del pubblico dopo il bruttissimo match con il cubano Lardouet Gomez e lui replicava.
“I fischi sono stati la reazione al fatto che non avevano visto del pugilato. Perché, è vero, quella sera di boxe non se ne è vista per niente.”
Alle critiche è dunque abituato. Gliene sono arrivate a fiumi dopo i primi match olimpici.
“È l’invidia, guaglio’. Ho letto un commento molto bello di Marco Maddaloni, mio cognato. Diceva: “Ragazzi, purtroppo l’invidia è l’arma peggiore che viene puntata contro il campione”. Anche se non hai nulla contro Usain Bolt, avresti voluto che vincesse Gatlin. Non può vincere sempre lo stesso. Hanno goduto tantissimo anche sulle sconfitte della Pellegrini. Sono dei gufi maledetti, chi vince dà fastidio. E’ così da sempre. E poi c’è un’altra cosa…”
Dimmi…
“Stravinci e l’avversario nun nè bbuono, straperdi e si ‘nu scemo, che amma a fa’? Voglio prendere i fischi sino alla fine, me ne strafotto. L’importante è il risultato”.
Era stato così a Londra, come lo era stato a Pechino, ai Mondiali di Chicago e a quelli di Almaty.
Quando era al massimo della condizione Russo era resistente, abile nella difesa (“Il mio maestro, Domenico Brillantino, mi ha insegnato che è un’arte determinante in questo sport. Non l’ho mai dimenticato”) e sapeva colpire rapido per poi uscire altrettanto velocemente dalla replica dell’avversario. Portava i colpi attraverso strane traiettorie. Impossibili per chiunque, ma non per lui. E faceva risultati. Poteva non piacere, ma era sicuramente un dilettante fortissimo.
Non so cosa avrebbe fatto da professionista. Mi dispiace non ci abbia provato, anche perché resto dell’idea che un pugile che si limiti al dilettantismo rimanga un incompiuto, uno che non può essere giudicato in assoluto. Ma ho rispetto per la sua scelta.
Quelli che oggi chiamano haters, perché non odiatori professionisti?, gongolano. Si eccitano davanti alla sconfitta contro uno sconosciuto spagnolo, cancellano con un ingiusto colpo di spugna il passato.
Non funziona così. Ed è proprio il pugilato a insegnarcelo.
I punti accumulati nelle riprese iniziali di un match valgono quanto quelli messi assieme negli ultimi round. Russo campione lo è stato, il fatto che oggi si muova su bassi livelli di rendimento non giustifica i cartellini di chi non gli assegna alcun merito nell’intera carriera.
Clemente Russo ha segnato una linea di confine. È stato un dilettante che ha goduto di grande popolarità. Ha agito da protagonista in televisione, sulle prime pagine dei giornali, sulle riviste non sportive. E questo gli ha dato riconoscibilità, soldi e sicurezza. Ma ha minato l’attendibilità dei giudizi. Troppo spesso si è portati, anche inconsapevolmente, a giudicare il personaggio e non il pugile. E lui, con l’atteggiamento fuori dal ring nel finale di carriera (nelle interviste, intendo) ha dato materiale in abbondanza agli odiatori di professione.
Clemente Russo, anche se il suo stile non piaceva agli amanti della nobile arte, me compreso, è stato un degno campione tra i dilettanti. Chi non lo sopporta, se ne faccia una ragione.
Ma dovrebbe essere arrivato il momento di alzare bandiera bianca anche da parte dei sostenitori a prescindere. La carriera di un pugile va giudicata per i risultati raggiunti. Se questo metro vale per il passato, nella stessa maniera deve essere valido per il presente.
Otto sconfitte negli ultimi 22 match, tre battute d’arresto consecutive indicano che sarebbe meglio fare una lunga riflessione. Se poi il suo futuro dovesse essere nei supermassimi, la scelta da fare mi sembrerebbe assai semplice.
*articolo ripreso da https://dartortorromeo.com/2018/11/15/russo-quando-la-realta-non-conta-sbaglia-chi-lo-odia-e-chi-lo-sostiene/