Coriandoli dal cielo, sorrisi a go-go, sorpresa enorme, gioia infinita, l’anno sportivo che se ne va, l’immensa O2 Arena di Londra applaude in una bolgia incredibile, domenica 18 novembre 2018 resterà scolpita: il ritrovato “cannibale” Djokovic s’è bloccato di colpo e il numero uno Next Gen, Sascha Zverev, a soli 21 anni, gli ha fatto lo sgambetto nella finale del Masters, guarda caso, dieci anni dopo, ripete l’impresa di Nole aggiudicandosi il Super8 ad appena 21 anni. Lacrime a bordo campo nel clan tedesco, comunque enorme soddisfazione in quello serbo dopo una resurrezione miracolosa. Soltanto “la sfinge” rimane impassibile, come quando giocava, come quando innalzava Andy Murray dalle stalle alle stelle. Anche se si vede chiaramente che attende il grazie, il – contenuto – abbraccio, dell’ultimo allievo, Sascha Zverev, già pronto per diventare Alessandro il Grande del tennis. La sfinge, al secolo Ivan Lendl da Ostrava, ex Cecoslovacchia, poi naturalizzato cittadino statunitense, è il super-coach più vincente sul mercato, il più ambito, il più caro, quello dal quale anche il bambino d’oro tedesco, di ceppo russo, è andato in processione promettendogli dedizione assoluta in cambio del biglietto per il paradiso. Con Ivan il terribile, che si strappava le ciglia in diretta per caricarsi e concentrarsi quando doveva fronteggiare l’odiato rivale John McEnroe, non si tratta solo di dritto da abbracciare come una fede o di lavoro duro da professare come il credo. Bisogna immolarsi al sogno, come fece lui, peraltro invano sull’erba di Wimbledon, per rimuovere, con la forza della volontà tutti gli ostacoli possibili. Bisogna studiare, bisogna ascoltare, bisogna lottare, bisogna essere più duri dell’avversario.
Sascha Zverev è più viziato di Andy Murray: entrambi vengono da una famiglia di tennisti, entrambi hanno vinto da subito, entrambi possiedono le stimmate tennistiche e atletiche, entrambi, a livello più alto, si sono incagliati contro i soliti tre, Federer, Nadal e Djokovic e, soprattutto, nelle lunghe battaglie degli Slam, con quei cinque set che chiudono e riaprono continuamente la partita, sottoponendo a un autentico supplizio corpo e testa. Sascha è viziato anche dall’uno-due, servizio-rovescio, che spacca, è bello, altero, ha bruciato tutte le tappe, ha già vinto tre Masters 1000 e non in modo casuale, ma battendo l’anno scorso Djokovic nella finale di Roma e Federer in quella di Toronto e, quest’anno, Thiem in quella di Madrid. E’ il più giovane dei top ten, è il primo tedesco che rivince il Masters da Boris Becker nel 1995, è un panzer che ha stritolato Federer in semifinale e Djokovic in finale, sbriciolando il terrificante ruolino di marcia del serbo: 35 successi negli ultimi 37 match – tutti questa settimana al Masters – e 36 game di servizio. Mette paura, deve farlo, come Wojtek Fibak ripeteva al giovanissimo Ivan Lendl che sbarcava da “nemico” negli Stati Uniti all’epoca della Cortina di ferro.
Uno così, non può pensare alla sconfitta nel round robin contro il mostruoso Djokovic degli ultimi tempi, un 64 61 senza appello che si sommava al 62 61 rimediato nelle recenti semifinali di Shanghai, sempre sul veloce. Uno così, se davvero è forte, se davvero vuole diventare il migliore, deve ascoltare il guru, deve imparare dalla sconfitta deve insistere sui punti forti ed esaltarsi su quelli deboli, deve spingere al centro e non sui lati (come tanto piace a lui, ma anche a Novak…). “Non ci ho pensato troppo a quella sconfitta, ho cercato di andar là fuori e divertirmi il più possibile, godermi il match, l’atmosfera, il momento. E ci sono riuscito. Il servizio ha funzionato bene tutta la settimana, mi dava tanta fiducia, e tutto ha funzionato bene”. La chiave è la presunzione che spesso diventa un boomerang e si trasforma in stizza, nervosismo, frustrazione, auto-distruzione, sconfitta, ma questa volta è un alleato imbattibile. Quanti se la sentono di sfidare Novak il campione di gomma nei lunghi scambi da fondo campo? Quanti possono ragionevolmente insistere sulla diagonale di rovescio? Stavolta, Sascha il viziato, per vincere, per poter dire a ogni punto quello che dirà ad alta voce al microfono: “Ivan, grazie di esserti aggiunto al team, per ora sta funzionando!”, accetta tutto. Si piega su qualsiasi palla, insegue qualsiasi traiettoria, corre su qualsiasi fendente. Per diventare Alessandro il grande deve chiudere l’anno con 58 partite vinte. Record, ovvio. Ma adesso deve confermarsi, deve essere sempre così, come lo pretende Lendl, anche nei primi turni, anche contro gli avversari più piccoli, anche in allenamento. Per strappare un mezzo sorriso alla Sfinge.
*articolo ripreso da federtennis.it