Il tennis è specializzato in resurrezioni. Ma quella di Novak Djokovic passerà alla storia, con la doppia sottolineatura d’autore: settimo trionfo-record agli Australian Open (quindicesimo Major, a due tacche da Nadal, a cinque dal primatista Roger Federer), nella finale perfetta – 6-3 6-2 6-3 – contro Rafa Nadal.
Una sottolineatura che lo lancia all’assalto del Grande Slam, cioè il successo nei quattro maggiori tornei in un solo anno, a maggio, il Roland Garros sulla terra di Parigi, a luglio, Wimbledon sull’erba di Londra, a settembre, gli Us Open sul cemento di New York.
Il campione di gomma
Come ha fatto il 31enne serbo, il campione di gomma, a risalire, a un anno dall’operazione chirurgica al gomito, quando appena sette mesi fa sembrava definitivamente svuotato del suo sacro fuoco, proprio nel torneo francese, dove nel 2016 aveva sfatato il tabù terra rossa, aggiungendo anche la gemma Roland Garros al diadema di trionfi, quand’era diventato l’ottavo della storia ad aggiudicarsi tutti i Majors, il terzo a detenere contemporaneamente tutte le corone e il primo tennista a mettersi in tasca 100 milioni di dollari di soli premi?
In realtà, per vincere finalmente anche Parigi, dopo tante delusioni, Novak aveva sacrificato molto, inclusa la vita privata, aveva tirato troppo la corda sia del fisico che della mente, e all’improvviso ne pagava il prezzo.
Perdeva già al terzo turno contro Querrey a Wimbledon, si arrendeva già all’esordio all’Olimpiade di Rio sia pur contro Del Potro, cedeva a Wawrinka nella finale degli Us Open, lasciava addirittura la corona di numero 1 del mondo nelle mani del “gemello” Andy Murray, quindi salutava il super-coach Boris Becker (che gli rimproverava qualche distrazione in allenamento). Che batteva subito, all’alba del 2017, a Doha, tanto per ribadire chi era veramente il più forte, anche se salutava gli Australian Open già nel secondo turno, sorpreso dal numero 117 del mondo, il veterano Denis Istomin, regalandogli il record di unico “over 100” dal quale sia stato eliminato negli Slam.
Una serie di scelte sbagliate
E, ad aprile, a Montecarlo, salutava ancor più clamorosamente coach Marjan Vajda, e tutto lo staff vincente, che gli avevano rimproverato la dieta alimentare troppo povera di carne rossa e quella filosofica col guru (Pepe Imaz). Con la terra rossa, e la prospettiva di difendere il titolo al Roland Garros, sembrava recuperato, con le semifinali di Madrid e la finale di Roma, e ancor di più con l’avvento del nuovo super-coach, Andre Agassi. Anche se i quarti a Parigi e quelli a Wimbledon, peraltro per ritiro quand’era sotto un set e un break contro Berdych facevano esplodere il caso-gomito. “Ne soffro da un anno e mezzo”. Con in scia il clamoroso stop per il resto della stagione.
Le delusioni di gennaio, col ko nel quarto turno degli Australian open per mano del campione delle Next Gen Finals under 21 di Milano, il coreano Chung Hyeon, lo convincevano alla fine del mese a ricorrere alla soluzione chirurgica al gomito. La scarsa fiducia in Agassi lo spingevano ad accelerare il rientro e quindi a chiudere il rapporto con l’ex punk di Las Vegas, il precedente primatista del più grande ritorno di un ex numero 1 in vetta alla classifica, e a riabbracciare il coach-mamma Vajda. Il ko con Marco Cecchinato nei quarti del Roland Garros lo inducevano a una vacanza con la moglie, da soli, passeggiate e scalate, in una destinazione emblematica: la montagna di Sainte Victoire. Una scalata personale decisiva, per Nole, dopo qualche incomprensione familiare e con due figli a casa da crescere.
Da lì in poi, Nole ha ritrovato la voglia di allenarsi e di dedicarsi come prima al tennis, ma soprattutto ha dato un calcio, magari nemmeno in modo figurato, al famoso “Pace ed amore” predicato dall’amico-guru che gli aveva annacquato la proverbiale cattiveria agonistica. Al Queen’s, a giugno, è quindi tornato a superare un “top 5” dopo quasi diciotto mesi, Dimitrov nel secondo turno, pur cedendo in finale a Cilic dopo aver avuto match point.
Un corsa trionfale
E, da lì in poi, ha pigiato sul pedale dell’acceleratore senza più rialzare il piede, aggiudicandosi Wimbledon, Cincinnati, Us Open, Shanghai e fermandosi solo in finale a Parigi-Bercy e Masters. Una corsa trionfale, segnata fortemente dal 10-8 al quinto set in 5 ore 17 minuti contro Nadal nelle seconde più lunghe semifinali della storia di Wimbledon (dov’era partito da testa di serie numero 12), dal netto successo su Federer nella finale di Cincinnati e dal rientro al numero 1 del mondo, a Bercy, grazie alla rinuncia di Rafa per l’ennesimo infortunio.
Poi, quest’anno, dopo il ko con Bautista Agut nelle semifinali del torneo d’assaggio di Doha, Djokovic è tornato a vestire l’armatura di novello, invincibile, Achille nei grandi tornei. E, armato di senso dell’anticipo, gambe e geometrie impeccabili, ha scardinato qualsiasi sicurezza: dal qualificato Krueger all’attaccante di ritorno Tsonga, dal delizioso rovescio a una mano del rampante Shapovalov al potente Medvedev, dal sempre rotto Nishikori al recuperato Pouille, al solito Rafa. La cosa preoccupante per gli avversari è che sembra più forte e completo di prima. E ritrovare il suo punto debole sembra più complicato.